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L’Italia offre maggior contributo al mondo tra tutti i Paesi sviluppati per le missioni di pace internazionali

Immagine di copertina
Caschi blu della missione UNIFIL in Libano, a comando italiano. Credits: Ministero della Difesa

Uno studio mette in luce che l’Italia offre il maggiore contributo del mondo sviluppato alle missioni di pace internazionali

I primi mesi del 2020 sono senza dubbio tra i più complicati che la comunità internazionale abbia dovuto affrontare da molti anni a questa parte. La diffusione del nuovo Coronavirus e della relativa patologia COVID-19, prima in Cina e poi nel resto del mondo, ha continuato e continua a mettere in estrema difficoltà i sistemi sanitari dei Paesi con maggior numero di casi, con gravi conseguenze non solo sanitarie e sociali, ma anche economiche. L’Italia è tra i Paesi maggiormente colpiti, e saranno molti i provvedimenti necessari per risanare un tessuto sociale ed economico fortemente indebolito. Quando l’attuale emergenza si sarà conclusa, tuttavia, assieme al rilancio del Paese dovrà tornare anche la consapevolezza che l’Italia ha un ruolo chiave nel sistema politico internazionale, un ruolo che in Italia è spesso poco conosciuto, se non ignorato.

A mettere in luce questi elementi è una nuova ricerca, pubblicata da The International Spectator, la rivista scientifica dell’Istituto Affari Internazionali (IAI). Lo studio a firma di Gabriele Abbondanza, Ricercatore della University of Sydney, analizza le missioni di pace internazionali sotto egida ONU, UE e NATO, per poi valutare il ruolo di tutti i Paesi che vi prendono parte. I risultati sono tanto semplici quanto importanti: l’Italia offre il maggiore contributo alle missioni di pace internazionali tra tutti i Paesi sviluppati, sia in termini di truppe stanziate, sia in termini di missioni di cui ha il comando.

Questa può giungere come una sorpresa per chi non si occupa di relazioni internazionali, eppure il ruolo italiano di “poliziotto dell’Occidente” è tutt’altro che recente, è anzi radicato da diverso tempo. In fondo, già due anni fa l’analista britannica Braw aveva definito gli Italiani i “maestri militari dell’Europa”. La “sorpresa” probabilmente nasce da un insieme di fattori, inclusa una certa ritrosia nel discutere di missioni di pace in Italia, una percezione eccessivamente negativa degli Italiani riguardo le capacità del proprio Paese, e una generale cautela da parte della classe politica nel fare riferimento al ruolo italiano nel mondo.

Eppure i dati parlano chiaro. Con riferimento alle Nazioni Unite, l’Italia partecipa in 6 missioni ed offre il maggior numero di caschi blu di ogni altro Paese industrializzato, seguita a distanza da Francia e Spagna. L’Italia ha inoltre il comando della missione UNIFIL in Libano e della relativa missione di supporto MIBIL, ma partecipa anche alle operazioni nel Sahara Occidentale, in Mali, in India, Pakistan, e Cipro.

Nell’ambito dell’Unione Europea, l’Italia ricopre il ruolo di cofondatore e partecipa in 14 missioni comunitarie, otto delle quali in Africa, due nel Mediterraneo, due in Europa, una nel Caucaso e una in Medio Oriente. In particolare, le missioni EUNAVFOR MED (Operazione Sophia) ed EUTM Somalia sono a comando italiano.

L’Italia è poi attiva in 11 operazioni sotto egida della NATO, di cui sei in Europa, tre in Asia e due nel Mediterraneo. Tra queste spicca la missione KFOR in Kosovo – a comando italiano – e Resolute Support in Afghanistan, di cui l’Italia ha il comando in seconda, a sostegno degli Stati Uniti.

Vi sono inoltre 10 missioni che l’Italia svolge al di fuori dei mandati ONU, UE e NATO, ma sempre in un’ottica di collaborazione internazionale per mantenere lo stato di diritto, difendere i diritti umani, contrastare il terrorismo internazionale e proteggere gli interessi italiani. Fra queste le più importanti sono senza dubbio la missione di addestramento in Iraq della Coalizione Internazionale anti-ISIS – guidata dall’Italia – e la missione di contrasto finanziario all’ISIS, di cui il Paese ha il comando in seconda assieme a Stati Uniti e Arabia Saudita. Gli ultimi dati della Coalizione Internazionale mostrano che gli esperti italiani hanno finora addestrato circa 60.000 tra membri dell’intelligence, militari e poliziotti iracheni, in un costante impegno contro il cosiddetto Stato Islamico.

Un ruolo su vasta scala dunque, quello dell’Italia. Ma quali sono le caratteristiche del peacekeeping italiano? In primis, vi è il duplice scopo di proteggere i diritti umanitari e il diritto internazionale da un lato, e difendere gli interessi nazionali italiani dall’altro (stabilizzando Paesi limitrofi e controllando le rotte commerciali). Questa apparente dicotomia non deve in realtà sorprendere, in quanto tratto distintivo della politica estera italiana che è da tempo riconosciuto dagli esperti del settore.

Detto ciò, è possibile individuare ragioni ancora più specifiche. È infatti chiaro come molti dei teatri in cui le truppe italiane sono impegnate si trovino in Africa Settentrionale, Corno d’Africa, Medio Oriente e Balcani, in altre parole dove gli interessi italiani – non solo economici, ma anche politici, sociali e culturali – sono presenti in maniera più consistente. Inoltre, le attività di policing e addestramento sono una delle iniziative in cui l’Italia eccelle, soprattutto grazie al lavoro dei Carabinieri, a tal punto che l’ex Direttore della CIA Petraeus ha affermato “l’Italia sta all’addestramento militare come Michael Jordan sta al basket”. I Carabinieri sono poi all’avanguardia anche nella tutela del patrimonio culturale globale, arrivando ad avere oramai diffuso quello che è un “modello da seguire”, secondo le esperte britanniche Rush e Benedettini Millington che vi hanno dedicato un libro.

In totale, nel 2019 gli Italiani impegnati in missioni di pace all’estero sono stati circa 7.000, ed il costo annuale di tali operazioni è stato di circa 1 miliardo di euro (qui la proroga approvata lo scorso luglio dal Parlamento). Da questa spesa, tuttavia, va detratto il fatturato di colossi industriali italiani come Fincantieri – tra i più rispettati al mondo nel settore della difesa – ed il valore aggiunto della protezione di rotte commerciali importanti per l’Italia, spesso negativamente influenzate dall’instabilità locale. Per non parlare, chiaramente, delle migliaia di vittime di soprusi e persecuzioni perpetrate in zone di conflitto, alcune delle quali hanno il potenziale di (ri)trasformarsi in futuri pericoli per la sicurezza nazionale italiana, Libia fra tutte.

Insomma, mantenere la pace e la stabilità internazionale non è solo un costo, ma anche un’opportunità per l’Italia, sia a livello umanitario che a livello strategico. In tempi estremamente difficili come quelli imposti dalla pandemia di COVID-19, il primo istinto della comunità politica può comprensibilmente essere quello di tagliare la spesa per le missioni di pace italiane, con l’idea di dirottare risorse importanti per affrontare un’emergenza ancora più vicina. Così facendo, però, si corre il rischio di creare nuove emergenze in un futuro molto più prossimo di quanto si possa immaginare. Come sempre, bisogna ragionare con grande attenzione prima di prendere decisioni che potrebbero risultare controproducenti e irreversibili, specialmente in regioni con un diretto impatto sulla sicurezza italiana.

Un’alternativa migliore potrebbe essere quella di approfondire questo aspetto così poco conosciuto della politica estera italiana, salvaguardandolo dai forti tagli alla spesa che probabilmente avverranno nei prossimi mesi e, forse, riscoprendo al contempo un impegno italiano per la pace e la stabilità internazionale di cui poter andare fieri, soprattutto in un momento scoraggiante come quello che il Paese intero sta vivendo.

* a cura di Gabriele Abbondanza, ricercatore presso la University of Sydney

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