Gelati e software spia: il boicottaggio di Ben & Jerry’s e il caso Pegasus rivelano l’ambiguità di Israele sui territori occupati
“Qualcuno non vuole che Israele importi gelati o esporti tecnologie“, come i software spia. La denuncia arriva direttamente da Shalev Hulio, co-fondatore e amministratore delegato della compagnia di sicurezza israeliana NSO Group, coinvolta in un’inchiesta giornalistica internazionale che ha denunciato l’uso di un programma informatico di sorveglianza sviluppato dall’azienda per spiare avvocati, giornalisti, attivisti per i diritti umani e dissidenti in tutto il mondo.
Ma cosa c’entrano i gelati con i software spia? Apparentemente i due temi hanno ben poco a che fare, eppure due notizie apparse la scorsa settimana sui media globali hanno scosso in modo simile la politica in Israele, mostrando tutta l’ambiguità della posizione dello Stato ebraico sul ruolo giocato da Tel Aviv nei territori palestinesi.
Il 19 luglio, la società statunitense Ben & Jerry’s ha annunciato che non venderà più i propri gelati nei territori palestinesi occupati, riferendosi a Gerusalemme est e alla Cisgiordania, che ospita centinaia di migliaia di coloni israeliani. Nella stessa giornata, un consorzio di 17 testate internazionali, tra cui il britannico The Guardian e lo statunitense Washington Post, aveva pubblicato la notizia di un software chiamato Pegasus, sviluppato dal NSO Group e usato da alcuni governi per spiare oppositori e membri della società civile.
Paradossalmente, il mondo politico israeliano è insorto per l’annuncio dell’azienda americana e si è dimostrato straordinariamente reticente sulla notizia dell’esportazione di un software spia in Paesi accusati di violare i diritti umani, autorizzata dal ministero della Difesa di Tel Aviv. In entrambi i casi però, sebbene con toni diversi, i rappresentanti politici dello Stato ebraico hanno rimarcato la natura “anti-israeliana” tanto della scelta di Ben & Jerry’s quanto delle indiscrezioni circolate su Pegasus. Perché? La risposta è celata nel comportamento delle autorità israeliane al di là e al di qua del confine con i palestinesi.
Il caso dei gelati Ben & Jerry’s
A partire dal 2022, quando scadrà l’attuale contratto in essere con il distributore israeliano, la società statunitense di proprietà della multinazionale Unilever non venderà più i propri gelati nei territori palestinesi occupati, limitando il commercio ai confini dello Stato ebraico come stabiliti nel 1967.
La decisione di Ben & Jerry’s ha scatenato enormi proteste sui social in Israele e alimentato una polemica con il governo del premier Naftali Bennett, che ha accusato l’azienda di aderire al movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS), un gruppo politico transnazionale che mira a fare pressioni sullo Stato ebraico perché concluda l’occupazione della Palestina. Il presidente israeliano Isaac Herzog ha addirittura definito il boicottaggio di Israele “un nuovo tipo di terrorismo”.
“Riteniamo che sia incoerente con i nostri valori che il gelato di Ben & Jerry’s venga venduto nei Territori Palestinesi Occupati”, ha fatto sapere la società americana in una nota. “Ascoltiamo e riconosciamo anche le preoccupazioni condivise con noi dai nostri fan e partner di fiducia”.
Sebbene l’amministratore delegato di Unilever, Alan Jope, abbia preso le distanze dall’annuncio di Ben & Jerry’s, confermando che la multinazionale resta “pienamente impegnata” a fare affari in Israele, la casa madre non ha in programma alcuna azione contro la propria controllata che, secondo l’a.d., “ha preso questa decisione da sola”.
Intanto, l’azienda responsabile della produzione dei gelati nello Stato ebraico per conto della società americana si è opposta alla decisione e ha promesso di continuare a vendere i propri prodotti in tutto Israele per l’intera durata del contratto, che scadrà a fine 2021. Ma la scelta di Ben & Jerry’s mette in discussione il futuro dei gelati dell’azienda statunitense nel Paese e non solo.
Sulla questione è intervenuto direttamente il primo ministro israeliano Naftali Bennett, che lo stesso 19 luglio ha parlato personalmente con Jope, lamentando il “passo chiaramente anti-israeliano” compiuto dalla controllata di Unilever e promettendo una risposta “vigorosa”. Immediata su Facebook anche la reazione dell’ex premier Benjamin Netanyahu: “Adesso sappiamo bene quale gelato non acquistare”.
Intanto, in settimana, la ministra dell’Interno israeliana, Ayelet Shaked, ha annunciato che lo Stato ebraico prepara un “boicottaggio” dei prodotti di Ben & Jerry’s negli Stati Uniti, in accordo con associazioni ebraiche, evangeliche e movimenti americani pro-Israele. La ministra dell’Economia israeliana, Orna Barbivai, ha addirittura pubblicato un video online in cui getta nella spazzatura una vaschetta di gelato dell’azienda americana.
Inoltre, l’ambasciatore israeliano a Washington, Gilad Erdan, ha scritto ai governatori di 35 stati federati americani, compresi Florida, Illinois, New York, New Jersey, California, Maryland e Texas, esortandoli ad applicare le leggi locali in vigore contro il boicottaggio dello Stato ebraico. Le amministrazioni di almeno cinque di questi territori hanno annunciato l’avvio di un’indagine in merito.
Insomma, il gesto simbolico di Ben & Jerry’s, un’azienda con alle spalle una lunga storia di attivismo sociale compreso il sostegno alle proteste del movimento Black Lives Matter negli Stati Uniti, rischia di trasformarsi in un boicottaggio delle sue stesse attività, non solo in Israele ma addirittura in America. Ironia della sorte, chi protesta contro la legittimità di un boicottaggio internazionale, si ritrova ad appoggiare una ritorsione uguale e contraria.
Come ha fatto notare l’attivista israeliano per i diritti umani e avvocato Eitay Mack sul quotidiano Haaretz, mentre la politica dello Stato ebraico sbraitava contro “la violazione del diritto al gelato dei coloni”, gli stessi personaggi tacevano sulle denunce di complicità della società di sorveglianza israeliana NSO nella persecuzione politica di giornalisti, legali, politici e attivisti in tutto il mondo.
Il caso del software spia Pegasus
L’inchiesta del consorzio di media internazionali ha rivelato come i numeri riconducibili a queste persone siano stati oggetto di una fuga di dati telefonici, indicando che erano stati selezionati con l’obiettivo di diventare oggetto di operazioni di sorveglianza da parte dei clienti governativi della società israeliana.
La compagnia, con sede a Herzliya, ha dichiarato più volte che il software Pegasus, che può accedere a tutti i dati sul dispositivo di un bersaglio e trasformarlo in un registratore audio o video attivando autonomamente microfoni e fotocamere senza che il possessore del telefono se ne accorga, è pensato solo contro il crimine organizzato e il terrorismo e ha negato ogni responsabilità nel caso venga usato per violare i diritti civili da parte di governi stranieri.
Secondo l’inchiesta, il software israeliano sarebbe stato usato dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti per prendere di mira i cellulari di alcune persone vicine a Jamal Kashoggi, il giornalista del Washington Post ucciso e fatto sparire nel consolato saudita di Istanbul. Ma anche dal governo ungherese di Victor Orban, che avrebbe usato la tecnologia sviluppata da NSO nell’ambito della sua guerra ai media.
Non solo. Stando al quotidiano Le Monde, sulla base dei dati forniti da Forbidden Stories e Amnesty International, il programma sarebbe stato utilizzato dai servizi segreti marocchini persino per spiare il presidente francese Emmanuel Macron e alcuni suoi ministri, compreso l’ex premier Edouard Phillipe. Una notizia smentita categoricamente da Rabat, ma che ha costretto il premier israeliano Naftali Bennett a rassicurare Parigi sull’uso del software solo a fini legali.
Eppure, visto che Israele considera qualsiasi programma informatico di sorveglianza come un’arma, il gruppo NSO e le sue affiliate possono averlo venduto a questi Paesi, alcuni dei quali accusati di violare sistematicamente i diritti civili e umani, solo con l’approvazione del ministero della Difesa israeliano.
Un’autorizzazione che sarebbe arrivata più e più volte, visto che la compagnia israeliana esporta i propri software in almeno 45 Paesi. Spesso con strascichi di polemiche e conseguenze legali. Sin dal 2017 infatti, quando per la prima volta emerse il coinvolgimento dei prodotti della NSO nello spionaggio dei dissidenti politici in Messico, in tutto il mondo sono sorte indagini e cause contro l’azienda israeliana.
Nel 2018, la società fu accusata di aver venduto un software spia ad Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti per intercettare le telefonate dell’allora primo ministro libanese, Saad Hariri. L’anno successivo Facebook fece causa all’azienda per un presunto furto di dati degli utenti di WhatsApp, avvenuto tra aprile e maggio di quell’anno, denunciando una serie di attacchi informatici contro oltre un centinaio tra attivisti, giornalisti, funzionari governativi, diplomatici e dissidenti politici in tutto il mondo.
In tutti questi casi, nelle rare occasioni di commento da parte di personaggi politici israeliani, si è sempre sottinteso che si trattasse di casi isolati ed eccezionali o che le testate che denunciavano queste malefatte fossero intrinsecamente “contro Israele“. Ad ogni modo, come rivelato al Guardian da una fonte interna al governo israeliano, a Tel Aviv si segue il principio “prima gli affari, poi la diplomazia”. “Quando si fa un accordo, si aprono molte porte alla diplomazia” ed è principalmente per questa via che lo Stato ebraico protegge la propria sicurezza.
Una comoda Linea Verde
Al di là della retorica di Israele vittima di un atteggiamento pregiudizievole, a cui spesso molti politici locali fanno ricorso in queste situazioni (tanto per Ben & Jerry’s quanto per Pegasus), i due casi mostrano invece l’ambiguità fondamentale dello Stato ebraico sul ruolo giocato nei territori palestinesi.
Da una parte, Tel Aviv respinge l’accusa di apartheid in Cisgiordania e a Gerusalemme est, rimandando ogni responsabilità delle condizioni di vita nei territori occupati all’Autorità Nazionale Palestinese, a cui è demandata ufficialmente la giurisdizione locale, tracciando così una linea netta tra le politiche adottate in queste zone e quelle in vigore sul suolo nazionale di Israele.
La posizione ufficiale israeliana distingue infatti quanto avviene all’interno della Green Line pre-1967 e da i comportamenti tenuti nel territorio conteso in Cisgiordania e a Gerusalemme est, giustificando le discriminazioni con motivazioni legate alla sicurezza. Ed è per la medesima sicurezza dello Stato, anche dagli attacchi diplomatici promossi nelle varie sedi internazionali dai palestinesi, che Tel Aviv vende ad altri Paesi la propria tecnologia – come i software di sorveglianza – assicurandosi l’appoggio delle altre capitali a prescindere dai colori politici e dal rispetto dei diritti umani.
Eppure, se il medesimo argomento viene adottato da una società come Ben & Jerry’s, che decide di operare in maniera diversa in Israele e nei territori occupati, la stessa politica dello Stato ebraico insorge. Come se fosse possibile rispettare la Linea Verde quando conviene e poi all’occorrenza dimenticarsene, soprassedendo sui diritti, tanto nei territori occupati quanto in altri Paesi.