Israele a rischio democratura, ecco l’identikit di chi protesta contro la riforma giudiziaria di Netanyahu
La riforma giudiziaria del governo Netanyahu ha provocato le più grandi proteste di piazza dal 1974. Per il premier, il Paese è come il bambino conteso nel giudizio di Salomone ma ora migliaia di israeliani temono di ritrovarsi a vivere in uno Stato illiberale e autoritario. Ecco chi sono
Era la sera del 26 marzo scorso quando un paio di centinaia di persone, divise in due gruppi, si assiepavano vicino alla Bilu Junction, lungo l’autostrada 411, nel centro di Israele. In vista solo bandiere israeliane, qualche urlo qua e là poi, un coro: non era il celebre (in Italia) “Poo Po Po Po Po” con cui festeggiammo la vittoria degli Azzurri ai Mondiali del 2006 ma la melodia è la stessa. Sulle note di “Seven Nation Army” dei White Stripes, una piccola folla ricordava a chi manifestava contro la riforma giudiziaria voluta dal premier i “64 seggi” conquistati dalla maggioranza di destra guidata da Benjamin Netanyahu alle elezioni dello scorso novembre. La risposta? «Niente fascisti alla Knesset».
Nonostante i toni, le due manifestazioni erano pacifiche e spontanee ma tutto aveva un forte valore simbolico. I due gruppi si fronteggiavano in una zona che divide i centri di Rehovot e Kiryat Ekron, roccaforte del Likud di “Bibi” Netanyahu, dalle vie di accesso ai kibbutz e agli insediamenti agricoli dove i partiti di centrosinistra vanno ancora per la maggiore. È la rappresentazione plastica della spaccatura politica e sociale provocata dalla mossa del premier, che rischia di trasformare per sempre lo Stato ebraico.
Un movimento acefalo
Tutto era iniziato con un tam tam su Whatsapp che denunciava addirittura l’arrivo della “dittatura” in Israele. Poche ore prima, Netanyahu aveva licenziato il suo ministro della Difesa, Yoav Gallant, che aveva chiesto al governo di fermare l’iter della riforma con cui l’esecutivo e la maggioranza parlamentare mirano a prendere il controllo della magistratura e a bypassare persino le decisioni della Corte Suprema. Le ragioni di Gallant erano legate al dissenso politico ormai palpabile anche nelle forze armate, contagiate da mesi di opposizione nella società.
In realtà, la protesta era cominciata dodici settimane prima. Sempre più persone, di diversa estrazione sociale e convinzioni politiche (e religiose) scendevano in piazza contro il progetto di legge, con cui Netanyahu è riuscito a compattare un’opposizione politica iper-frammentata. Nessuno però è riuscito a prendere davvero le redini della protesta: né i partiti né tantomeno i sindacati, che pure il giorno dopo hanno letteralmente paralizzato lo Stato ebraico. Il 26 marzo, le manifestazioni sono esplose ovunque, rendendo impossibile per il governo fermarle.
A Tel Aviv, migliaia di manifestanti hanno bloccato l’autostrada Ayalon, che da nord a sud attraversa la metà della costa del Paese, appiccando falò, cantando e sventolando la bandiera nazionale. A Gerusalemme, i dimostranti hanno tentato l’assalto alla residenza del premier mentre un altro gruppo si è accampato di notte fuori dalla Knesset e altri hanno bloccato l’ingresso del centro studi di destra Kohelet Policy Forum.
Poi il giorno dopo tutto è precipitato. Autobus gratuiti portavano i manifestanti da Tel Aviv a Gerusalemme per protestare davanti alla Knesset e il più grande sindacato israeliano, l’Histadrut, annunciava lo sciopero generale: l’aeroporto Ben Gurion cancellava i voli, centri commerciali e scuole chiudevano e gli ospedali riducevano i servizi alle sole emergenze. Netanyahu, sotto processo per diverse accuse di corruzione, ha tenuto duro per 48 ore, poi ha dovuto cedere e annunciare la sospensione dell’iter di approvazione della riforma fino a luglio e l’apertura di un dialogo con l’opposizione, rischiando una crisi di governo da parte dei partiti di estrema destra. In particolare dal suo ministro della Sicurezza, Itamar Ben-Gvir, che in cambio dell’assenso allo stop (provvisorio) ha preteso e ottenuto una nuova guardia nazionale, sotto il suo comando. La protesta comunque è continuata e non si fermerà fino al ritiro del progetto di legge. E chissà, forse anche oltre.
…ed eterogeneo
La richiesta principale della piazza è certamente la cancellazione della riforma ma nelle scorse settimane dalla protesta si sono levate altre e ben più ambiziose rivendicazioni: porre fine al “Bibidom”, il regno di Netanyahu (premier per la sesta volta e al potere per 15 anni degli ultimi 27 anni); scrivere una costituzione (che Israele non ha mai avuto) e limitare il potere e i privilegi dei partiti religiosi. Tutto questo è figlio dell’eterogeneità del movimento contro Netanyahu che non a caso, nel suo discorso in cui annunciava la sospensione del progetto di legge, ha paragonato Israele al bambino conteso da due donne e giudicato nella Bibbia da Salomone.
I primi ad aderire alla protesta erano avvocati, ingegneri, medici, accademici e dipendenti di aziende high-tech e dell’editoria. Le manifestazioni trovavano consensi persino tra i professionisti degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, oltre alle fasce di popolazione laica che mal sopportano l’esenzione dal servizio militare degli ebrei ultra-ortodossi. A questi si sono aggiunti ex capi di stato maggiore delle forze armate, funzionari della giustizia, piloti e altre categorie a reddito medio-alto e sempre più giovani.
Poi sono arrivate anche le associazioni: i cortei si sono popolati di manifestanti con cappe rosse e cappellini a tesa larga, ispirati alla serie tv “The Handmaid’s Tale”, che racconta un futuro dispotico in cui le donne sono brutalmente oppresse. Persino qualche attivista contrario alle violenze sui palestinesi si è unito ai cortei, purché non sventolasse la bandiera dell’Olp. Quindi si è visto il movimento femminista di sinistra Shovrot Kirot, che si batte anche per le minoranze, i rifugiati, i richiedenti asilo e la comunità Lgbtq+. Per ultimi, i riservisti dell’esercito che hanno spostato gli equilibri, provocando involontariamente l’allontanamento di Gallant, il blocco del Paese e la retromarcia di Netanyahu.
Cosa accadrà ora
Ma non è ancora finita. Il giorno dopo l’annuncio del premier, l’opposizione ha scoperto che la maggioranza aveva portato alla Knesset per una seconda lettura il disegno di legge per modificare la composizione della commissione per la selezione dei giudici, una delle norme della più ampia riforma giudiziaria contestata dalla piazza.
È solo un passaggio tecnico, ha spiegato il segretario generale della Knesset, Dan Marzouk, mentre dalla maggioranza hanno sottolineato come il voto sul ddl non sia ancora stato calendarizzato. È come negoziare con una pistola alla tempia, ha commentato invece la deputata laburista Naama Lazimi. Insomma, la lotta continua e il dialogo è tutto in salita.