Democratura o lotta alla tirannia giudiziaria? La riforma della giustizia di Netanyahu spacca Israele
La nuova legge voluta dal Governo prevede che la Corte Suprema non possa rivedere le scelte di parlamentari democraticamente eletti, solo perché i giudici le ritengono “irragionevoli”. Ma per l'opposizione, i media e i manifestanti in piazza la destra punta più che altro all’immunità, in primis per il premier, accusato di corruzione. È un terreno scivoloso per la democrazia
Deve essere la politica a determinare la composizione delle giurie e per legiferare il Parlamento non ha bisogno della supervisione dei giudici. Per l’opposizione invece, che ha cavalcato le proteste di massa e la rivolta dei riservisti dell’esercito, la nuova legge e la conseguente deriva autoritaria rappresenterà la fine della democrazia, modificherà gli equilibri di potere e potrebbe addirittura portare a una guerra civile. Ecco le ragioni del sì e del no sulla più contestata riforma della giustizia mai presentata in Israele.
Contro la tirannia giudiziaria
Uno dei principali sostenitori della riforma della giustizia voluta dalla coalizione di destra del premier Benjamin Netanyahu è Simcha Rothman, presidente della Commissione giustizia della Knesset: «Vogliamo raggiungere un equilibrio dove il potere di governare sia nelle mani di chi è governato, non in quelle di alcuni giudici autoproclamatisi re-filosofi. Dopo la riforma, Israele tornerà a essere quella che era prima dell’usurpazione giudiziaria e sarà più democratica, più in sintonia con i valori del pubblico e le sue diverse voci. Le uniche persone che si oppongono a quest’idea sono quelle che desiderano continuare ad avere il controllo sul Paese attraverso la Corte suprema, nonostante continuino a perdere alle elezioni».
Secondo Naveh Dromi, nota editorialista e analista politica israeliana «a differenza dei colpi di Stato, i segnali della riforma erano visibili da anni. Per decenni la destra ha richiesto di limitare la Corte suprema perché non è una branca del governo che riequilibra le altre, ma piuttosto un settore che cerca di sopprimere gli altri più deboli, più moderati, che tentano di attuare la volontà del popolo come stabilito dalle urne. Quelli che definiscono la riforma un colpo di Stato, non rispettano e non hanno interesse verso la democrazia israeliana. Le battaglie tra la destra e la sinistra prima della fondazione dello Stato sono troppe da elencare. Ma di recente, da quando Yariv Levin (il vicepremier, ndr) ha presentato la sua riforma, si comportano come se stessero andando in guerra».
Oltreoceano, Morton A. Klein, presidente dell’Associazione Sionista Americana, la più vecchia organizzazione pro-Israele negli Usa, sostiene che «chiunque creda nella democrazia e lo Stato di diritto dovrebbe elogiare la Knesset per aver fatto passare con un voto schiacciante – 64-0 – la prima parte di quest’indispensabile riforma della giustizia. La nuova legge vieta alla Corte suprema israeliana di sopprimere o sospendere le decisioni dei parlamentari democraticamente eletti per il solo fatto che i giudici autoproclamati, non eletti e di sinistra credono che queste decisioni non siano “ragionevoli”. Così facendo, l’attuale tirannia giudiziaria è stata limitata. Il “principio di ragionevolezza” era ingiusto, violava le leggi democratiche, ed era usato per eliminare i ministri eletti, oltre a essere una misura soggettiva: ciò che per qualcuno è irragionevole per qualcun altro è ragionevole. L’approvazione della legge sulla “ragionevolezza” è un primo passo importante per rafforzare la democrazia in Israele».
Il cammino di Ungheria e Turchia
Ben-Dror Yemini, editorialista israeliano, crede che la maggior parte degli attori politici, oltre all’opinione pubblica, sostenga la riforma della giustizia, ma non com’è stata presentata da Levin. «Le preoccupazioni riguardano principalmente la violazione della democrazia e il terreno scivoloso che può portare alle stesse decisioni prese nell’ultimo decennio da Paesi come la Polonia e l’Ungheria. Un altro timore è che l’unico scopo dietro alle riforme proposte sia di salvare Netanyahu dalle accuse di corruzione e dal processo in corso a suo carico».
Per Nachum Barnea, giornalista e vincitore del Premio Israele nel 2007, «l’approvazione della legge rappresenta la realizzazione del sogno di una vita per Levin e Rothman. Hanno quattro partiti che li sostengono – il Zionist Party, Otzma Yehudit, United Torah Judaism e Shas. Ora vorranno fare tutti i loro interessi e non ci sarà nessuno a fermarli. Netanyahu non sarà in grado di controllarli, come non lo è mai stato in passato».
Un’altra voce molto ascoltata in Israele è quella del politologo Attila Somfalvi, secondo cui nessuno dei Paesi che ha approvato i piani di riforma proposti da Netanyahu è rimasto democratico. «Ungheria, Polonia e Turchia sono la prova concreta che si può essere eletti democraticamente e distruggere la democrazia stessa che ti ha portato al potere – senza via di ritorno», ha detto. «Questo esperimento viene fatto sulla pelle degli israeliani. Ma di questo esperimento conosciamo un risultato soltanto: meno democrazia, meno libertà personali, più corruzione, un governo più marcio, meno libertà d’espressione e meno supervisione sul potere illimitato che i politici conservatori stanno richiedendo per sé stessi».
Anche oltreoceano, in particolare negli Stati Uniti, diversi opinionisti si sono schierati contro la nuova riforma della giustizia. Come scrive Bret Stephens, editorialista del New York Times, «si tratta di un mero esercizio di potere portato avanti da parlamentari che vogliono ottenere l’immunità da un tribunale che ha tentato di ritenerli responsabili delle loro azioni. Israele non starebbe attraversando questa crisi se Netanyahu non stesse cercando di liberarsi dalle accuse penali aggrappandosi al potere dentro alla sua coalizione composta da persone bigotte, corrotte e estremiste. Un uomo di Stato si sacrifica per la nazione. Un demagogo sacrifica la nazione per sé stesso».