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Home » Esteri

Così Israele nega il diritto alla salute delle donne di Gaza (nell’indifferenza della comunità internazionale)

Immagine di copertina
Credit: Yousef Masoud/SOPA Images via ZUMA Press Wire

Da Jasmine a Sama: TPI racconta le storie di alcune donne malate di cancro impossibilitate a curarsi per via del blocco terrestre, aereo e marittimo imposto dallo Stato di Israele

La Striscia di Gaza vive da ormai 16 anni una condizione di isolamento a causa del blocco terrestre, aereo e marittimo imposto dallo Stato di Israele. A causa di tali misure, il sistema sanitario di Gaza è al collasso. Gli ospedali non hanno le attrezzature mediche necessarie per rispondere alle esigenze sanitarie di 2 milioni di persone residenti nella Striscia. 

Secondo i dati forniti dal Palestinian Center for Human Rights (PCHR) nel report “Gaza Strip Faces Israeli Offensive with frail Healthcare System and Acute Power Shortage”, mancano in media il 40% dei farmaci essenziali, il 32% di materiale medico monouso e il 60% di forniture per laboratori e banche del sangue. I dispositivi medici sono spesso fuori uso, obsoleti o privi di pezzi di ricambio.

Le restrizioni imposte a Gaza includono il divieto di importazione di alcuni dispositivi medici, in quanto considerati “a duplice uso”: secondo Israele potrebbero costituire una minaccia per la sicurezza ed essere utilizzati per scopi militari. 

Di conseguenza, gli ospedali mancano di apparecchiature fondamentali per la cura del cancro: secondo Physicians for Human Rights (PHR), molti tipi di trattamento oncologico, tra cui la chemioterapia, la radioterapia e le scansioni PET/CT (componenti essenziali della diagnosi, del trattamento, della valutazione e del monitoraggio della malattia) non sono disponibili nella Striscia di Gaza.

L’accesso limitato o mancato ai servizi medici lascia ai pazienti Gazawi l’unica alternativa di doversi curare in Cisgiordania e/o Israele. Tuttavia, le autorità israeliane impongono restrizioni alla libertà di movimento dei Gazawi attraverso un sistema burocratico di permessi che limita arbitrariamente la loro possibilità di uscita dalla Striscia.

Per uscire da Gaza e sottoporsi a cure mediche, i pazienti devono ottenere ben quattro documenti diversi: 1) il “Referral Commitment Form” rilasciato dal Ministero della Salute dell’Autorità Palestinese; 2) il “Referral Report” firmato dall’ospedale competente di Gaza; 3) la “Permit Request” rilasciata dall’ospedale ricevente al di fuori di Gaza; ed infine, 4) l’approvazione del Coordinatore Sanitario all’interno del Coordination & Liaison Office dello Stato di Israele.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nel 2022 sono state approvate il 54% delle richieste di permesso di uscita per ragioni mediche, il 2% è stato negato e nel 44% dei casi le autorità israeliane non hanno fornito una risposta entro la data dell’appuntamento in ospedale.

Il mancato riscontro entro i termini da parte di Israele risulta in un rifiuto de facto che causa la morte di moltissimi pazienti in attesa di cure. Tra il 2008 e il 2021, 839 persone hanno perso la vita aspettando il rilascio di permessi mai arrivati. Solo nel 2022, sei pazienti – tra cui tre bambini – sono morti in seguito al ritardo o alla negazione da parte di Israele del permesso di uscita. 

Il sistema dei permessi impatta specialmente le donne. In primis, a Gaza non esistono dispositivi medici o specifici interventi chirurgici per la cura del cancro al seno. Inoltre, una pratica comune delle autorità israeliane consiste nella negazione dei permessi di uscita alle pazienti perché – secondo Israele – imparentate con persone vicine a gruppi armati. Infine, spesso i permessi per gli accompagnatori/le accompagnatrici vengono negati o ritardati, rendendo per loro impossibile uscire da Gaza e ricevere cure. 

Nel giugno 2022, come volontar* del Gaza Freestyle – progetto di solidarietà e mutualismo nella Striscia di Gaza -, abbiamo incontrato alcune donne malate di cancro e/o i loro familiari ascoltando le loro testimonianze.

La storia di Jasmine 

Nel novembre del 2020, a Jasmine è stato diagnosticato il cancro al seno. Il cancro è in metastasi, avendo colpito altri organi, incluso il sistema linfatico. Il cancro compromette giornalmente la salute fisica e mentale di Jasmine, che soffre di dolori alle ossa e nausea. Jasmine ha pensieri confusi, è affaticata.

Dal 2021, Jasmine ha richiesto per ben quattro volte il permesso per uscire da Gaza per sottoporsi a cure mediche necessarie alla sua sopravvivenza. Israele non ha mai risposto alle sue richieste, senza chiarire il perché. Avendo la necessità di essere curata, Jasmine si è recata urgentemente in Giordania passando da Rafah, il checkpoint con l’Egitto. Ha dovuto trascorrere tre giorni in Egitto prima di poter entrare in Giordania, soffrendo molto sia fisicamente che psicologicamente. “Ho trascorso due mesi in Giordania da sola, senza mio marito né i miei figli, perché i costi sarebbero stati troppo elevati”. 

“Sono totalmente distrutta, mentalmente e fisicamente. Quando sono arrivata in Giordania, avevo già perso tutti i capelli. Il medico mi ha detto che sono senza speranza. […] Mi hanno detto che sarei dovuta arrivare prima. Mi hanno prescritto un farmaco, che però non c’è a Gaza. Sono distrutta mentalmente perché ho lasciato i miei figli a Gaza, e quando sono arrivata in Giordania i medici mi hanno detto che era troppo tardi. Il mio viaggio è stato inutile, se avessi ricevuto un permesso da Israele in tempo ci sarebbero state speranze. Ora è troppo tardi”. 

In Giordania, non essendoci più nulla da fare, a Jasmine è stata prescritta una cura specifica, che tuttavia non potrà seguire a Gaza, perché irreperibile. In assenza della cura prescritta, le condizioni di salute di Jasmine stanno rapidamente peggiorando. 

La storia di Sama, raccontata da sua madre

Sama ha il cancro da quando ha sei anni, ora ne ha diciotto. Le è stato prescritto un trattamento specifico, somministrato insieme alla chemioterapia. Per la tipologia di malattia che ha, dovrebbe essere trattata almeno ogni tre mesi. La chemioterapia non è tuttavia disponibile a Gaza. Per 12 anni le è stato accordato il permesso di accedere alle cure in Israele, passando per la burocrazia stremante dei permessi. In questo modo, Sama riceveva cure mediche adeguate ed il supporto finanziario per viaggiare e sostare in Israele.

Negli ultimi tre anni, tuttavia, le autorità israeliane hanno deciso arbitrariamente che Sama non può più curarsi in Israele ma esclusivamente – quando concessole – in Cisgiordania. 

L’impatto sulla salute fisica e mentale della ragazza è stato devastante. L’ospedale in Cisgiordania non le garantisce il supporto finanziario che prima riceveva. La mamma, vedova, ha seri problemi economici, e spesso Sama è costretta a rinunciare alle cure salvavita perché la famiglia non può coprirne le spese. Inoltre, nell’ospedale in Cisgiordania le cure non sono adeguate e gli appuntamenti fissati dai medici sono più sporadici.

“Cerco di darle molto da bere e da mangiare. Pago molto per il cibo e questo mi crea problemi finanziari, ma devo farlo per aiutarla. Ho un bimbo piccolo, delle associazioni mi danno dei soldi per lui. Cerchiamo di sopravvivere, anche se sembra impossibile e insostenibile” ci racconta la madre, una donna forte e coraggiosa, mentre si emoziona e gli occhi si riempiono di lacrime. “Spero che un’associazione adotti il mio bambino perché io non posso dargli un futuro. Forse l’associazione può garantirgli una vita migliore. Ogni mese chiedevo soldi alla gente per aiutarmi a sostenere il viaggio per le cure di mia figlia fuori da Gaza  e ora ho molti debiti”. 

Inoltre, spesso alla madre è negato il permesso ad accompagnare Sama, che deve essere dunque scortata da altri familiari. Impedire ad una madre di accompagnare la figlia malata in ospedale è una violazione che nessuno dovrebbe mai subire. Altre volte Sama ha ricevuto il permesso, ma è stato negato agli altri membri della famiglia, risultando in una impossibilità di fatto a ricevere cure mediche, non potendo muoversi da sola. 

Alla nostra domanda su quali fossero gli effetti della malattia su Sama, la madre ci ha raccontato: “In primis, gli effetti fisici: le gambe le fanno male. Sta sempre male e ha sviluppato problemi psicologici. Si sente imprigionata in casa, o soffocata dai muri della sua stanza. La condizione della nostra casa poi è terribile perché non c’è acqua corrente, non è un posto dove si può vivere”.

La storia di Khalida, raccontata dal figlio

“Khalida ha scoperto di avere il cancro nel 2018”, ci racconta suo figlio e accompagnatore. “Prima di riuscire a spostarsi per farsi curare, il permesso le è stato negato 6 volte. Per questo, si è poi rivolta al Palestinian Center for Human Rights, che ha contattato le autorità israeliane per trovare una soluzione, e alla fine ha ricevuto il permesso”. Il permesso le è stato accordato dopo sei mesi dalla prima richiesta. Di conseguenza, Khalida non ha avuto accesso alle cure prescritte per sei mesi. 

“Qual è l’effetto su di te, come accompagnatore?” abbiamo chiesto al figlio di Khalida. “Penso che non ci siano parole per descrivere la sofferenza. È molto complicato. Quando non può andare ad uno degli appuntamenti [ndr: perché le autorità tardano a rispondere] la sua salute peggiora immediatamente. È necessario che i trattamenti vengano somministrati in tempo. [ndr: Le autorita israeliane] ci mettono un mese e mezzo per verificare i documenti relativi alla richiesta, quindi nel frattempo a Gaza le possono dare solo morfina per diminuire i dolori, almeno fino a che non le viene accordato il permesso per andare a curarsi fuori da Gaza”.

“Questa situazione la rende molto nervosa, arrabbiata e aggressiva ogni giorno. È esausta, non mangia, non ha una routine giornaliera. È sempre a letto, non si muove se non con la sedia a rotelle”. 

Quando il figlio di Khalida ci racconta questa storia, sua madre sta viaggiando per ricevere cure fuori Gaza. Sta viaggiando da sola, nonostante le sue condizioni precarie, perché al figlio non hanno accordato il permesso. Il permesso è ancora pendente. Una volta gli hanno negato il permesso di accompagnamento, lei si è quindi recata al checkpoint di Erez da sola, ma lì non le hanno consentito di uscire dicendole che era troppo stanca per viaggiare da sola. Così, le autorità israeliane hanno arbitrariamente deciso che Khalida fosse troppo stanca quel giorno per ricevere le cure di cui aveva bisogno. 

“Qual è il motivo per negarci l’accesso alle cure? Siamo persone normali che vogliono una vita normale e adeguati trattamenti sanitari. Fatevi sentire, alzate le vostre voci di giornalisti, italiani, comunità internazionale. I palestinesi di Gaza vivono isolati da 15 anni ormai, Israele controlla le nostre vite, il nostro accesso alle cure, il nostro respiro, tutto”.

Le testimonianze delle organizzazioni per i diritti umani di Gaza

Per capire meglio le ragioni del diniego alle richieste di permesso, gli effetti sulla salute delle donne nonché le relative violazioni dei diritti umani, abbiamo incontrato il Palestinian Center for Human Rights (PCHR) e Al Mezan Center for Human Rights (Al Mezan), i due più importanti centri per la tutela dei diritti umani a Gaza. 

Siamo stati nell’ufficio di Mohammed, avvocato di PCHR specializzato in ricorsi relativi ai permessi di uscita da Gaza. 

“Quali sono i motivi per cui Israele non concede i permessi ai pazienti di Gaza?” gli chiediamo. “Succede che i Gazawi cambino spesso numero di telefono per avere le promozioni migliori a seconda dell’operatore, così nel tempo cambiano quattro o cinque numeri. Per Israele questo è inaccettabile perché non riuscirebbero a monitorare i cittadini di Gaza e per questo Israele rifiuta le loro richieste”. 

“Altre volte succede che il medico israeliano a Erez rifiuti la decisione presa dalla commissione medica a Ramallah e Gaza – cioè da un totale di 24 membri esperti/medici – sostenendo che la situazione medica sia meno grave di quanto disposto e che sia quindi sufficiente che il paziente sia sottoposto alle cure disponibili all’interno della Striscia”. 

Come già spiegato, i pazienti hanno spesso bisogno di qualcuno che li accompagni, ma Israele nega il permesso all’accompagnatore/accompagnatrice. “Attualmente stiamo seguendo il caso di una paziente che ha ricevuto un permesso di tre mesi; tuttavia, non è potuta uscire perché hanno negato il permesso alla persona che avrebbe dovuto accompagnarla. […]. È un caso difficile che PCHR e il Ministero degli Affari Civili non riescono a risolvere. Abbiamo scritto numerose lettere [ndr: autorità israeliane], ma non abbiamo ancora ricevuto risposta. In genere, casi di questo tipo vengono respinti”. “Questo è un caso serio, il cancro di questa donna si sta diffondendo e la sua vita è a rischio.”

Il giorno successivo abbiamo incontrato Issam Younis, direttore di Al Mezan, che ci racconta gli effetti del blocco di Gaza sulle donne con il cancro e la sua esperienza come legale. 

“Ho avuto il cancro, sono stato sottoposto a cure nel 2006 e nel 2007 […]. [ndr: Il sistema di permessi per accedere alle cure] è estenuante e i malati di cancro sanno che è solo una questione di tempo: se si aspetta, si muore. Non è uno scherzo. Potete immaginare una donna con tutte le difficoltà sociali e culturali che deve affrontare, in una società patriarcale, e poi a causa del blocco, della divisione, dell’occupazione e anche della cultura [ndr: patriarcale] che c’è a Gaza. È molto difficile. Quindi ha bisogno di sostegno. Una volta ottenuto il permesso ci si chiede: chi si prenderà cura dei figli e della famiglia? È tutto molto duro e molto serio”. 

“Ci racconti la tua esperienza da avvocato nell’assistere pazienti ‘vittime’ di questo sistema di permessi? Come funziona?” “Solitamente i pazienti ci chiedono assistenza legale quando il permesso è stato negato o quando Israele non ha risposto entro il termine necessario. A quel punto come organizzazione approcciamo le autorità israeliane e spesso riusciamo a ottenere il permesso”. 

“Quanto tempo ci vuole per ricevere una risposta da Israele?” “A volte giorni o settimane se gli mandiamo tutti i documenti necessari. Un paio di mesi fa, tuttavia, Israele ha smesso di processare le nostre richieste, poi sono tornati lentamente a cooperare. Dicono di rispondere solo al Ministero degli Affari Civili palestinese, non alle ONG o ai centri per i diritti umani. Ricevono i ricorsi non solo da noi ma anche dalle organizzazioni per i diritti umani israeliane”. 

Incontriamo infine Raji Sourani, direttore di PCHR, con cui approfondiamo il tema della violazione del diritto alla salute delle donne di Gaza.

“L’intero discorso che ruota attorno il cancro al seno, alle donne, è frustrante: non c’è un motivo specifico per cui non viene garantito l’accesso alle cure. Il vero cancro però è l’occupazione. Quando vivi da 55 anni sotto occupazione criminale, illegale, inumana, 55 anni di crimini di guerra commessi alla luce del sole, che il mondo intero vede senza intervenire, devi lavorare sodo su questi singoli casi per essere ascoltato, per portare alla luce un quadro più ampio. Non ricordo un singolo ministro israeliano che abbia affrontato in qualche modo la crisi della nostra gente a Gaza”. 

“Mr. Raji, quale effetto ha sulla frammentazione della Palestina il sistema di permessi che Israele impone alla popolazione di Gaza per uscire dalla Striscia [ndr: per ragioni mediche. I Gazawi possono uscire dalla Striscia esclusivamente per ragioni mediche o di lavoro, se concesso da Israele con un permesso]?” 

“Israele, in quanto potenza occupante, ha l’obbligo legale [ndr: ai sensi del diritto internazionale umanitario, applicabile in una situazione di conflitto armato, che comprende una situazione di occupazione] di garantire il diritto alla salute del popolo sotto occupazione. Non è un favore che devono farci, è un loro obbligo. Ma sono razzisti. Ci viene negato il diritto alla salute perché non siamo israeliani ma palestinesi, e questo è assolutamente razzista. Ci dicono che è per ragioni di sicurezza. Questo lo comprendo se parlano di persone appartenenti a forze politiche. Ma non se si parla di civili, i cui diritti fondamentali vanno rispettati ad ogni costo. Il rispetto di tali diritti non deve essere considerato un privilegio, come pensa Israele; è un loro dovere. Non dovremmo chiedere il permesso!”. 

E continua “L’ostruzione all’accesso alle cure sanitarie per i civili, per gli individui, fa parte del sistema di apartheid basato sulla nazionalità, la religione, la razza e il genere [ndr: che Israele mette in atto contro i palestinesi]. Non conosco nessun posto sulla terra in cui viene negato l’accesso alle cure mediche a persone che non hanno alcun precedente penale o che non sono una minaccia alla sicurezza”. 

“Anche quando non vuoi andare in ospedali israeliani, e scegli di andare in altre strutture nei Territori Palestinesi Occupati – come Gerusalemme, o Nablus – le autorità israeliane te lo negano e ti spediscono indietro. È disgustoso, è razzista. […] Stiamo parlando di persone. Le persone muoiono davanti ai tuoi occhi, e tu ti senti inerme”.

La disumana politica della concessione e del diniego dei permessi colpisce innumerevoli persone di Gaza. Quelli citati sono solo alcuni dei casi. Israele spesso giustifica i dinieghi con “ragioni di sicurezza”: ma quali possono essere i rischi per la sicurezza dello Stato di Israele da parte di persone malate, non autosufficienti e dei loro familiari esausti, frustrati, disperati? 

Ancora una volta, la comunità internazionale si volta dall’altra parte di fronte alla violazione del diritto alla vita e alla salute, i due più fondamentali diritti di ogni essere umano.

Si ringraziano R. Oscio e Viola per l’editing e il supporto.

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