La morte degli ostaggi e le divisioni nel governo: cosa cambia per Israele
La mattina del primo settembre, l’esercito israeliano (IDF) ha reso noto di aver trovato i corpi senza vita di Ersch Goldberg-Polin, Eden Yerushalami, Carmel Gat, Almog Sarusi, Alex Lubnov e Ori Danino, sei ostaggi rapiti da Hamas negli attacchi del 7 ottobre. Sempre l’IDF ha fatto sapere che gli ostaggi sarebbero stati uccisi dal gruppo terrorista palestinese nei tunnel sotto Rafah, quando le truppe israeliane si stavano avvicinando.
Al dramma umano, che si aggiunge alla tragica situazione di morte e distruzione che da quasi un anno va avanti a Gaza (secondo il ministero della Sanità locale, controllato da Hamas, i morti palestinesi sarebbero oltre 40mila dall’inizio del conflitto), si aggiunge una questione di natura politica, perché quest’ultimo episodio pone l’esecutivo di Benjamin Netanyahu di fronte al dilemma su come affrontare la questione della liberazione degli ostaggi e di un cessate il fuoco a Gaza, tema su cui nel governo e nell’opinione pubblica israeliana non sono fino a oggi mancate divisioni.
Andiamo in ordine: quanti sono gli ostaggi israeliani attualmente in mano ad Hamas? Si stima che il 7 ottobre, nel corso dei suoi attacchi nel sud di Israele, il gruppo terrorista palestinese abbia rapito in tutto 251 persone, quasi tutti cittadini israeliani (alcuni dei quali con doppia cittadinanza) tranne 23 thailandesi e un filippino. Di queste persone, 117 sono tornate a casa vive: 105 nell’ambito di accordi che hanno previsto il rilascio di detenuti palestinesi da parte di Israele, otto liberati in operazioni dell’IDF e quattro rilasciati unilateralmente da Hamas. Oltre a questi, 72 ostaggi sono morti nel corso della prigionia, secondo quanto reso noto da Israele. Rimangono dunque in tutto 97 persone nelle mani di Hamas, che salgono a 101 se si considerano altre quattro persone in mano al gruppo da prima del 7 ottobre. Di queste persone è difficile conoscere pienamente la situazione, in un contesto di guerra aperta come quello della Striscia di Gaza, ragione per cui ogni giorno in più di prigionia si teme per l’incolumità di questi ostaggi. Nell’attuale situazione, infatti, non solo i sequestrati sono esposti come la popolazione civile di Gaza ai rischi della guerra, ma si teme che i danni alle infrastrutture e alla logistica possano rendere in alcuni casi difficile conoscere informazioni sul loro stato: lo scorso novembre, Hamas, aveva reso noto a loro dire di non conoscere la situazione di ben 60 ostaggi per via degli attacchi in corso. Ovviamente, sullo stato e la situazione degli ostaggi sono al lavoro prima di tutto intelligence e team di negoziatori che stanno gestendo tutte le ipotesi di negoziato e non sono tenuti a rivelare nulla al pubblico.
Tuttavia, periodicamente trapelano notizie sulla situazione degli ostaggi: le ultime, diffuse nei giorni scorsi dalla testata britannica UK Jewish Chronicle, dicono che il leader di Hamas Yaya Sinwar terrebbe nelle sue immediate vicinanze 22 ostaggi nel tentativo di prevenire la sua uccisione, mentre tutti gli altri sarebbero in mano di diversi gruppi attivi nella Striscia, non solo di Hamas.
Parallelamente a questo, in Israele dal 7 ottobre si susseguono manifestazioni molto partecipate che chiedono al governo Netanyahu, al grido di “Bring them home”, di trovare un modo per riportare gli ostaggi a casa sani e salvi, qualcosa di paragonabile all’accordo dello scorso novembre in cui 80 ostaggi israeliani vennero liberati in cambio di 240 palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. In tale circostanza, Hamas liberò anche i cittadini thailandesi e filippini e un israeliano con cittadinanza russa nell’ambito di altri accordi e decisioni. Tuttavia, ad oggi tutti i tentativi di accordo sembrano molto lontani, nonostante le numerose pressioni internazionali, con le forze più estremiste del governo israeliano particolarmente intransigenti e Hamas che ha rifiutato le più recenti proposte di accordo promosse dagli USA. Ma proprio in questa situazione, alla luce della morte dei sei ostaggi resa oggi nota, le pressioni per un accordo, o per una soluzione che possa portare al ritorno a casa sani e salvi di coloro che sono oggi nelle mani di Hamas, sembrano destinate ad aumentare e, potenzialmente, ad aprire un dibattito interno al governo Netanyahu. Proprio oggi, il sindacato Histadrut ha lanciato uno sciopero generale per chiedere un accordo che porti alla liberazione degli ostaggi.
Il premier israeliano, oggi, in conferenza stampa ha reso noto che Israele lo scorso maggio aveva accettato un accordo sostenuto dagli USA ma rifiutato da Hamas, episodio ripetutosi il 16 agosto, e che chi uccide gli ostaggi non vuole un accordo. Al tempo stesso, si è detto impegnato sulla strada per trovare un accordo per liberare gli ostaggi e garantire la sicurezza di Israele.
Come questo accordo potrebbe eventualmente arrivare, è un grande dilemma che non prevede scorciatoie. Nel governo Netanyahu spesso si sono sentite le voci più oltranziste dei ministri Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, i più estremisti del governo, contrari a qualsiasi concessione nei confronti di Hamas, mentre più aperto si è sempre mostrato il ministro della Difesa Yoav Gallant, compagno di partito di Netanyahu nel Likud. Anche i leader dell’opposizione, compreso Benny Gantz, che aveva aderito al governo di unità nazionale post-7 ottobre, hanno più volte criticato la gestione del conflitto da parte di Netanyahu e dei suoi alleati più estremisti.
Ad oggi, l’elemento di divisione principale circa l’accordo, è il controllo del corridoio di Philadelphi, come è chiamata la linea di confine tra la Striscia di Gaza e l’Egitto lunga appena 14 chilometri, attualmente sotto il controllo dell’IDF. Hamas, ha posto una linea rossa sul ritiro dell’IDF da questo corridoio e da quello di Netzarim, che divide il nord e il sud della Striscia, ma Israele non vuole cedere nell’immediato, nemmeno a una forza internazionale, tutta da costituire. Con l’Egitto che chiede anch’esso il ritiro delle forze israeliane dall’area, Netanyahu ritiene in questo momento il controllo del corridoio necessario per la sicurezza di Israele, dal momento che da qui è tradizionalmente stato inviato il grosso delle armi di contrabbando verso Gaza a sostegno di Hamas. Gallant, dal canto suo, ha aperto alla possibilità che l’IDF lasci il corridoio, aprendo una piccola spaccatura nel governo, che tuttavia, nei giorni, può diventare più grande. Vedremo cosa accadrà, ma le possibilità di un cessate il fuoco passano anche da quei 14 chilometri di terra nel deserto.