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Home » Esteri

L’11 settembre di Israele: così gli attacchi di Hamas hanno cambiato lo Stato ebraico per sempre

Immagine di copertina
Credit: AP Photo

L'attacco a sorpresa. Centinaia di ostaggi tra i civili. La reazione militare israeliana. E migliaia di morti e feriti da entrambe le parti. Ecco cos’è successo e cosa può ancora succedere in Medio Oriente

L’impenetrabile Israele è stata invasa. Con un’azione senza precedenti storici in quelle aridissime terre, il gruppo paramilitare di Hamas ha superato la cortina di ferro che separa Gaza dallo Stato ebraico, e con l’operazione tempesta al-Aqsa (al-Aqsa Storm) ha portato a termine la più grande escalation terroristica mai compiuta da quando ha preso il potere sulla Striscia nel 2007, lasciando sbalordite le autorità israeliane e il mondo intero per la sua ferocia e brutalità. I terroristi hanno approfittato di un’importante festività ebraica, il Sukkot, nel giorno di Shabbat, per lanciare l’attacco a sorpresa. A esattamente cinquant’anni e un giorno di distanza, in molti hanno riconosciuto nel successo delle prime ore dell’incursione un’analogia con la guerra dello Yom Kippur. Ma nel 1973 i combattimenti erano convenzionali e si svolgevano lungo i confini israeliani, nelle lontane alture del Golan e nel Sinai e non c’erano terroristi egiziani e siriani che sparavano a vista sui civili nelle città israeliane trascinando i corpi cruenti di donne e bambini attraverso il confine.

Mai visto nulla di simile
Quando Hamas ha invaso Israele sabato mattina, i miliziani hanno attraversato il confine via terra, mare e aria. Una volta entrati, hanno rapito e ucciso israeliani, sparato alle persone in auto e alle fermate degli autobus, radunato donne e bambini in stanze come Einsatzgruppen – sì, il confronto è appropriato – e le hanno mitragliate. Sono andati di casa in casa a scovare e uccidere i civili terrorizzati nascosti negli armadi e nei bunker, hanno trascinato i cadaveri insanguinati di israeliani a Gaza, facendoli sfilare, colpendoli e mutilandoli davanti a folle esultanti. Una giovane donna è stata uccisa e spogliata in mutande, il suo cadavere gettato nel retro di un pick-up in modo che potesse essere portato in giro per la città mentre i giovani di Hamas profanavano il suo corpo. I terroristi hanno attaccato anche un festival musicale nel deserto, dove centinaia di ragazzi sono stati uccisi e feriti, e molti altri risultano scomparsi. 

Il travolgente sforzo militare di Hamas è stato condannato all’unanimità dall’Occidente e accolto con giubilo dai nemici di Israele, inclusi Hezbollah e l’Iran. Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto che quanto avvenuto sabato «non si era mai visto in Israele» e in effetti l’attacco coordinato ha dell’incredibile e rappresenta una minaccia esistenziale per il Paese di dimensioni più uniche che rare. Oltre 5mila missili lanciati nelle prime ore dell’infiltrazione, un’incursione di oltre mille uomini armati nel sud del Paese che hanno dato il via a un brutale massacro, l’uso combinato di deltaplani, motoscafi, droni, furgoni e motociclette, l’occupazione di basi militari e diverse cittadine, il sequestro di militari, ufficiali e civili; mai l’esercito israeliano – che nel contesto militarista e super securitario dello Stato ebraico ha un suo nome confidenziale, Tsahal – si era trovato davanti a un attacco di simile portata.  

In molti si chiedono com’è possibile che proprio Israele, dove hanno sede due delle agenzie di servizi segreti ritenute tra le più efficienti al mondo – il Mossad e lo Shin Bet – e abituate a lavorare in stato di allerta, sia stato colto di sorpresa da un’operazione pianificata da mesi nel minimo dettaglio con il coinvolgimento di moltissimi uomini. È un fatto assodato che nell’organizzazione dell’operazione c’è un ruolo molto attivo dell’Iran, con cui Hamas ha tenuto incontri a cadenza bisettimanale negli ultimi mesi e che da anni ha aumentato il suo sostegno alle organizzazioni nella Striscia di Gaza, probabilmente con l’obiettivo di stabilire a una presenza simile a quella che ha in Libano tramite Hezbollah. 

Oltretutto il tempismo dell’attacco è stato micidiale per Israele, colpito in uno dei momenti più delicati della sua storia. Le proteste contro il piano di revisione del sistema giudiziario hanno diviso profondamente il Paese e in particolar modo i ranghi dell’esercito, tra i più aspri critici delle azioni del governo. Da mesi centinaia di soldati delle riserve militari hanno deciso di ritirarsi dalle sessioni di addestramento dichiarando che non presenteranno servizio per via delle modifiche giudiziarie, minando così la reputazione di Netanyahu come esperto militare e sollevando preoccupazioni sull’efficacia operativa delle forze di sicurezza israeliane – anche se poi i riservisti sono stati tra i primi a richiamare l’unità nazionale annullando le proteste programmate, in corso da quaranta settimane.

Infiltrazione storica
Di certo nessuno si aspettava un’invasione via terra anche grazie alla massiccia cortina di ferro tracciata da Israele lungo i 14 chilometri di confine con Gaza e tutti consideravano l’arsenale missilistico di Hamas la sua arma primaria. Le fortificazioni israeliane si estendono in profondità nel sottosuolo e sono dotate di telecamere di ultima generazione, sensori ultrasensibili e microfoni ad alta tecnologia, ma la mattina di sabato, 7 ottobre, i militanti palestinesi sembrano aver aggirato il confine con relativa facilità, sfruttando le falle nelle fortificazioni fino a raggiungere basi militari, villaggi e la città di Sderot. Un altro elemento a favore dei combattenti è il dislocamento di buona parte delle forze di sicurezza israeliane in Cisgiordania, lasciando così scoperto il confine a sud. Il successo dell’infiltrazione rappresenta un risultato storico per Hamas.  

D’altronde, se non proprio immaginabile per struttura e dimensioni, lo scoppio di una guerra era quantomeno prevedibile: da settimane gli analisti avvertivano che le escalation in quell’angolo infuocato del globo stavano prendendo una piega pericolosa. Era dai tempi della seconda intifada, all’inizio degli anni duemila, che non si registravano livelli di violenza così alti: 200 palestinesi uccisi in Cisgiordania, spesso durante gli scontri a fuoco tra militanti ed esercito, e almeno 36 israeliani prima dell’attacco di sabato scorso, altro record degli ultimi vent’anni. 

A preoccupare particolarmente Israele ora è lo spettro degli ostaggi presi e trasportati nelle catacombe di Gaza. I rapporti di Hamas parlano di almeno 164 «prigionieri di guerra» israeliani, tra soldati e civili, sebbene si tratti di informazioni non verificate e bisogna presupporre che vi sia una campagna di disinformazione in corso. Ma quando Hamas sequestrò il soldato israeliano Gilad Shalit nel 2011, fu rilasciato dopo cinque anni in cambio di oltre un migliaio di prigionieri, principalmente palestinesi.

L’ombra saudita
Se per dovere di cronaca i riflettori ora sono puntati ai confini a sud e a nord di Israele, c’è un altro luogo e una data antecedente al 7 ottobre che potrebbero offrire una chiave di lettura utile a spiegare i fatti drammatici di questi giorni. Il 26 settembre infatti il ministro del Turismo israeliano, Haim Katz, si reca a Riad in occasione di una conferenza organizzata dalle Nazioni Unite: è la prima visita – storica – di un membro del governo in Arabia Saudita. Nello stesso giorno,  non a caso, ha luogo un’altra visita – più relativamente – storica: dopo trent’anni una delegazione saudita guidata dall’inviato speciale saudita Nayef al Sudairi arriva in Cisgiordania per incontrare il ministro degli Esteri palestinese Riyad al-Maliki a Ramallah, dove dichiara ai giornalisti che «la questione palestinese è un pilastro fondamentale dell’ “Iniziativa araba” presentata dall’Arabia Saudita del 2002 ed è al centro delle discussioni in corso». Il piano, promosso dal principe ereditario Mohammed Bin Salman, prevede la normalizzazione delle relazioni con Israele in cambio del suo ritiro dalla Cisgiordania, da Gerusalemme Est, dalla Striscia di Gaza e dalle alture del Golan. Diversi osservatori ritengono che l’avvicinamento di Israele all’Arabia Saudita rappresenta un nodo centrale delle tensioni in tutta l’area e c’è chi suggerisce che l’attacco di Hamas sia in realtà un messaggio a Riad, sperando nella violenta reazione israeliana per ricompattare il fronte islamico.

Il risultato di questa guerra probabilmente definirà l’eredità politica del primo ministro Benjamin Netanyahu, che ha presieduto diversi round del conflitto con Hamas e finora si è sempre mostrato riluttante a rovesciare il gruppo, uccidere i suoi leader o a lasciarsi trascinare in un conflitto prolungato a Gaza. Ma ora è Gaza a trascinare Israele al suo interno, e questo è un fatto – almeno parzialmente – indissolubile dalle scelte strategiche che Netanyahu ha fatto in passato. Il bilancio degli errori avverrà però in un secondo momento. Adesso c’è una guerra da combattere. Non conosciamo ancora la piena portata dei suoi obiettivi: rovesciare Hamas e ri-occupare Gaza? Disarmare Hamas e andarsene? Bombardare e combattere per qualche settimana e accettare un altro cessate il fuoco? Ad ogni modo, nessun governo israeliano che voglia restare al potere adesso potrà gestire questa escalation con le stesse modalità degli ultimi 15 anni di conflitti a Gaza.

Anche gli Stati Uniti dovranno rendere conto del loro ruolo nell’aver apparecchiato il tavolo di questo disastro. Questa guerra dovrebbe segnare la fine delle concessioni unilaterali dell’amministrazione Biden per rientrare nell’accordo nucleare con l’Iran, di cui Hamas è cliente. Il presidente americano ha fornito alla Repubblica islamica l’accesso a fondi congelati in alcune banche della Corea del sud, e da quando è in carica Biden ha continuato a versare denaro in progetti di aiuti a Gaza sapendo bene che sarebbero l’organizzazione terroristica ha il controllo pieno del territorio e ne avrebbe tratto beneficio. In una serie di documenti trapelati di recente, alcuni funzionari della Casa Bianca hanno messo per iscritto questi sospetti, sapendo che Hamas riceveva una parte di quei soldi. Ma hanno deciso di inviarli lo stesso. 

È difficile immaginare che gli israeliani da ora accettino la presenza prolungata di un gruppo terroristico iraniano a Gaza. Intanto l’organizzazione di Hamas continua a preservarsi grazie a una comunità internazionale dentro e fuori il mondo islamico che la sostiene finanziariamente, militarmente, con azioni di intelligence e, soprattutto, preservando in vita i suoi principali esponenti. Si tratta di una rete che coinvolge sicuramente l’Iran, ma che con ogni probabilità si estende molto oltre, basta osservare i recenti sviluppi dei vari gruppi armati in Africa per intuire quanto sono attive le forze che si oppongono ad ogni processo di pace e ad ogni accordo di stabilizzazione, in un continente dove ormai sono prevalentemente al potere personaggi di provenienza militare (spesso aiutati da reparti di mercenari russi).

Proprio come avvenuto per gli Stati Uniti nel 2001, Israele è stato colto di sorpresa, le famiglie israeliane sono alla ricerca dei propri cari e le scene d’orrore sono estremamente scenografiche. Si tratta quasi certamente del più alto numero di vittime nella storia del Paese e il ritorno alla normalità sembra apparire come un lontano miraggio. Proprio come l’11 settembre, da sabato scorso il mondo è cambiato.

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