L’Isis è stato sconfitto sul campo, ma oggi la sua ideologia è più forte che mai
La vittoria militare contro l'Isis non ha scalfito l’ideologia del gruppo terroristico, che da molti punti di vista è più forte oggi che nel 2014
L’Isis è stato sconfitto sul campo, ma oggi la sua ideologia è più forte che mai
Un bambino si arrampica su un pennone, in tasca una bandiera nera. In pochi secondi riesce ad issarla. È il simbolo del sedicente Stato Islamico che sventola sul campo di Al-Hol, nel nord est della Siria, area sotto il controllo delle Forze Democratiche Siriane. Decine di persone applaudono, urlano “Allahu Akbar” (Dio è grande in arabo).
Donne con il niqab nero non nascondono la loro gioia nel vedere ancora una volta quel simbolo, ragazzini con il dito indice alzato. “Torneremo più forti di prima”. Pochi minuti dopo l’Asayish, le forze di sicurezza interna, disperde le persone e ammainano la bandiera. Il blitz è avvenuto pochi giorni fa nel campo dove sono trattenute quasi 35mila persone affiliate all’Isis, tra cui 11mila donne venute da tutto il mondo e i loro bambini. Il loro futuro è incerto, vivono in una sorta di limbo burocratico, ma intanto si sono riorganizzati. La maggior parte non ha alcun problema a dichiarare di supportare ancora il gruppo terroristico che ha tenuto in scacco la comunità internazionale ed effettuato attacchi terroristici in mezzo mondo.
“Questa è solo una prova di Allah, ma come dice il Corano dopo la sofferenza saremo premiati”, continuano a ripetere molte donne, che nonostante la sconfitta e il sogno infranto di un Califfato Islamico in Siria, non mostrano alcun rimorso. E chi, nel campo, prova solo ad accennare di non supportare più Isis viene punito duramente. A nulla servono i controlli, e i tentativi dei curdi per cercare una via per la de-radicalizzazione. Sono troppi, e le risorse a disposizione pochissime. E il supporto della comunità internazionale per far fronte a questa situazione è quasi inesistente.
La vittoria militare contro Daesh (l’acronimo arabo dell’Isis, ndr) il 23 marzo scorso, non ha scalfito l’ideologia del gruppo terroristico. Da molti punti di vista è più forte oggi che nel 2014.
Potrebbe sembrare quasi un controsenso, ma a rifletterci bene non lo è. Perché l’Isis ha dimostrato ai propri seguaci che un Califfato è possibile, non c’è più bisogno di immaginarselo attraverso le scritture del 12esimo secolo.
Nel 2014 Raqqa era diventata la loro capitale. Al massimo della loro espansione territoriale il gruppo controllava un terzo dell’Iraq e quasi due terzi della Siria. Un’area enorme e ben organizzata con una violenza inaudita: burocrazia, sistema scolastico, forza militare. A un certo punto hanno cominciato anche a coniare la loro moneta, esperienza che si è rilevata fallimentare, ma comunque l’ennesimo passo per la formazione di uno stato. E chi è sopravvissuto non vuole più tornare indietro e dal loro punto di vista, la sconfitta è solo una nuova sfida contro gli infedeli che li hanno umiliati.
“Siamo arrivati in migliaia per vivere nel Califfato. Abbiamo costruito quello che tutte le minoranze vogliono per essere liberi di vivere con le nostre regole”, ha detto a TPI un australiano affiliato a Daesh catturato dalle forze curde siriane proprio nell’ultimo fazzoletto di terra a Baghouz, in Siria.
Anche se in prigione e con la prospettiva di stare in carcere per decenni, quando ha accennato al Khalifa l’uomo ha le fiamme negli occhi. Uno sguardo fiero e che brillava di una luce profonda, pieno di odio.
“Al contrario di altri gruppi jihadisti noi abbiamo realizzato il sogno, ed è sempre stata la nostra priorità”, ha spiegato l’emiro che ha parlato solo in condizione di anonimato. Durante un’ora di intervista non ha mai tentennato per le violenze e le stragi compiute. Non ha mai ammesso l’orrore. E alla domanda sul futuro del gruppo sembra avere la consapevolezza che i “fratelli” liberi si stanno riorganizzando.
L’Isis non è morto in Siria. La struttura di propaganda funziona ancora, soprattutto nel “deep-web”. Nell’ultimo mese Daesh ha pubblicato almeno otto video dal titolo “Il risultato migliore è per i devoti” in cui mostrano combattenti giurare fedeltà ad Abu Bakr-Al Baghdadi, il loro leader. L’ultimo è stato pubblicato meno di dieci giorni fa dalla Turchia. “Se avete pensato che indebolendo lo Stato islamico e i suoi soldati, loro si sarebbero allontanati dal cammino o dalla la loro jihad, avete solo grandi illusioni”, ha detto un combattente identificato dal gruppo SITE come Abu Qatada al-Turki.
E i gruppi che girano fedeltà a quella bandiera nera si moltiplicano intorno al mondo. Dalle Filippine all’Azerbaijan. Passando per la Libia, la Tunisia, l’Egitto. In Nigeria sono riusciti a conquistare il territorio intorno al lago Chad facendo ritirare le forze militari locali. In Afghanistan sono presenti in almeno due province: Khanasor e Nangarhar. Proprio in questa ultima analisti militari pensano ci sono due basi potrebbero servire come hub per attacchi internazionali. In Egitto sono presenti nel Sinai. La campagna del presidente al-Sisi ha avuto scarsi risultati, visto che ha lasciato quasi 420mila persone senza i servizi di base (acqua, luce, medicine) e oggi si rifiutano di collaborare con le forze di sicurezza. In Iraq fanno attacchi quasi quotidiani.
Anche in Siria la situazione è complicata nonostante gli sforzi enormi delle Forze Democratiche Siriane. Le cellule dormienti sono ancora attive. La coalizione internazionale, capitanata dagli americani che vede sul terreno anche forze speciali francesi e inglesi, continua i raid in collaborazione con le forze locali. Ma queste incursioni mirate per prevenire gli attacchi contro i civili non hanno nulla a che vedere con l’ideologia.
Poi c’è l’emergenza per gestire i prigionieri. Almeno 10mila combattenti sono nelle carceri del Rojava, l’area controllata dall’amministrazione autonoma curda. E altre 30mila tra donne e bambini sono nei campi. I curdi dopo aver marciato su Raqqa per volere della coalizione, sacrificando migliaia di persone, sono stati lasciati soli a gestire una situazione quasi impossibile, soprattutto per quel che riguarda gli stranieri. Non ci sono fondi, e la gestione è molto costosa, tanto che i curdi si sono autotassati. Troppi Paesi hanno rifiutato o non hanno accolta la richiesta di formare un tribunale internazionale contro i crimini di Daesh. Inoltre si ostinano a non voler rimpatriare i propri concittadini additando come scusa la sicurezza nazionale, come se lasciarli in questo limbo fosse una soluzione contro il jihadismo internazionale. Un controsenso che sembra avere una visione davvero a breve termine del futuro.
Nei campi soprattutto, le condizioni sono davvero difficili. Camminando nella sezione delle donne straniere ad Al Hol, chiamato Annex, è chiaro che vivono ancora con la mentalità dello stato Islamico. Sono francesi, inglesi, americane, tunisine, tedesche, russe. Ci sono quasi una cinquantina di nazionalità. Queste donne sono sempre state le più radicali, soprattutto rispetto alle siriane. Ad Al-Hol hanno riorganizzato la Hisbah, la polizia morale che si aggira tra le tende e punisce le altre donne se non seguono alla lettera le regole della Shaaria o se osano mettere in dubbio l’ideologia. L’unica scuola per i bambini è stata distrutta a pietrate. Sono le madri oggi che educano i figli nelle tende. “Hanno riformato le scuole coraniche” mi ha spiegato la responsabile dell’intelligence per la loro sezione. A volte riescono a scoprirle, ma non sempre. I ragazzini crescono nell’odio, attaccano l’Asayish e visitatori con i sassi, li insultano. Urlano infedele a chi passa, e disegnano i loghi di Daesh sulle tende. Tutti loro sperano in un attacco della Turchia, uno Stato che li ha sostenuti in vari modi in tutti questi anni. Se Ankara attaccasse il Rojava, e in questi giorni sta muovendo le sue truppe al confine, oltre alla strage che potrebbe conseguirne, tutti i jihadisti, le loro mogli, i bambini, potrebbero tornare di nuovo liberi.