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Come l’Isis sta cambiando forma

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Il giornalista Rai Amedeo Ricucci racconta la metamorfosi di un califfato, sempre meno stato, che non può più offrire una "terra promessa" dell'Islam

“Strappa il tuo biglietto aereo per la Turchia: il paradiso è lì attorno a te”. Sono le parole pronunciate da un jihadista francese direttamente dai territori controllati dall’autoproclamato Stato islamico in Siria e in Iraq. Si è rivolto con un video, qualche settimana fa, ai suoi amici e aspiranti compagni d’arme che si trovavano ancora in Francia.

È solo l’ultimo atto di una campagna che va avanti sui social network dal mese di maggio, con cui Daesh invita i suoi simpatizzanti a raggiungere non più la “terra promessa” del nuovo Califfato bensì a organizzarsi per compiere attacchi contro i kafir (“gli infedeli”) nei propri paesi di residenza, in Occidente.

Il timing non è secondario e ci aiuta a capire meglio anche quanto è accaduto a Nizza. A partire infatti dall’inizio del 2016 – a seguito grosso modo delle polemiche scatenate dall’abbattimento di un aereo russo il 24 novembre da parte dell’aviazione di Ankara – è saltato quel patto di non belligeranza che la Turchia aveva stretto con il gruppo terroristico di Abu Bakr al-Baghdadi, in chiave anti Bashar al-Assad, e che aveva consentito per anni il transito più o meno indisturbato di migliaia di foreign fighters verso le aree controllate dall’Isis in Siria, attraverso i posti di frontiera di Akçakale, Kilis e Reyhanlı.

Dal mese di aprile l’ostilità crescente si è trasformata in guerra aperta, con l’Isis che ha ripetutamente colpito le città turche di confine – solo a Kilis ci sono stati quasi 100 morti in due mesi – e l’artiglieria turca che rispondeva bombardando a tappeto le aree controllate ancora dall’Isis in Siria.

Oggi la frontiera turco-siriana non solo è militarizzata, ma addirittura sigillata – grazie a un muro esteso già per alcune centinaia di chilometri – e il passaggio è diventato arduo per tutti, a cominciare dai foreign fighters, il cui flusso in entrata in Siria è ormai ridotto al lumicino.

A tutto ciò vanno poi sommate le sconfitte militari maturate nello stesso periodo dall’Isis sul terreno – una fra tutte: la perdita di Fallujah, in giugno – che hanno comportato la riduzione di almeno il 30 per cento del territorio che il sedicente Califfato islamico controllava nel suo periodo di massima espansione.

In particolare, per via dell’offensiva lanciata dalle milizie curde dello Ypg, l’Isis ha finito per perdere, una dopo l’altra, tutte le principali città al confine turco – prima Kobane poi Tall Abyad – laddove si concentrava proprio il passaggio dei foreign fighters (ma anche delle armi e del petrolio da vendere di contrabbando).

Il risultato è che comincia a vacillare il mito della “terra promessa”, che tanto peso ha avuto nella narrativa propagandistica dell’Isis. Da un lato si moltiplicano infatti le difficoltà logistiche per quello che in passato è stato un florido “turismo jihadista” verso la Siria e l’Iraq, oggi invece sempre più braccato; dall’altra è la stessa offerta turistica a essere meno allettante, perché l’Isis è sulla difensiva, assediata in molte delle sue roccaforti, e non è più in grado di gestire come vorrebbe un flusso sostenuto di nuovi arrivi.

Insomma, non è più il tempo dei mujatweet, la serie di spot formato famiglia con cui Daesh attirava a Raqqa i suoi simpatizzanti, con la promessa di farli vivere secondo il vero Islam, nella terra del vero Islam. Se la strategia dell’Isis resta sempre quella del “baqiya wa tatamaddad” (“rafforzarsi ed espandersi”), negli ultimi mesi comincia a essere declinata in maniera diversa, più da “movimento” e meno da “stato”.   

Da qui il peso crescente delle operazioni terroristiche all’estero, in Europa e non solo, attraverso le quali Daesh prova a mantenere il suo appeal sulla galassia jihadista. E come dimostrano i casi di Orlando, Magnanville e Nizza, non necessariamente deve trattarsi di operazioni pianificate a livello centrale dall’Isis, come a Parigi o Bruxelles: è sufficiente che ci siano dei lupi solitari da ispirare e trasformare poi, anche ex post, in “soldati” del Califfato.

Singolare ma indicativa è al riguardo la trafila di “certificazione” usata a Nizza, dove la rivendicazione della strage è arrivata dopo 36 ore: era il tempo che serviva per passare al setaccio il profilo di Mohamed Lahouaiej Bouhlel, l’autore della strage, e verificarne le credenziali di “prossimità” all’organizzazione, in modo da poterne rivendicare la strage.

C’è dunque un cambio di strategia nella rete di diffusione del terrore? Di certo c’è una maggiore “liquidità” dell’Isis, che si ritrova ad avere oggi una minore agibilità territoriale e moltiplica perciò gli sforzi in direzione delle cosiddette “interazioni spontanee”: quelle cioè che nascono da un accurato web marketing e garantiscono una radicalizzazione in tempi brevi, com’è stato appunto per lo stragista di Nizza, Mohamed Bouhlel.

Inutile da questo punto di vista star lì a interrogarsi sui legami reali che tale soggetto aveva con l’organizzazione-madre. Possono essere minimi, infatti, ma non è questo che conta: perché in questa fase “Daesh non organizza” – come ha ribadito due giorni il ministro della Difesa francese Jean Yves Le Drian – “Daesh diffonde ormai una mentalità terroristica contro la quale bisogna combattere”. 

 — L’analisi è stata pubblicata da ISPI con il titolo “Le lezioni di Nizza” e ripubblicata in accordo su TPI con il consenso dell’autore. 

*Amedeo Ricucci, giornalista Rai

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