Iraq, 109 morti e oltre 6mila feriti nelle proteste: cosa succede e perché i manifestanti sono scesi in piazza
Le manifestazioni sono esplose il 1 ottobre e si sono estese in breve tempo a tutto il Sud dell'Iraq. I manifestanti chiedono lavoro, salari più alti, servizi e accusano la corruzione della classe politica dirigente
Iraq, 109 morti e oltre 6mila feriti nelle proteste: cosa succede e perché i manifestanti sono scesi in piazza
109 morti e oltre 6mila feriti: questo il bilancio di sangue dopo oltre sei giorni di proteste nelle principali città dell’Iraq. Le manifestazioni sono esplose nella Capitale il 1 ottobre e si sono estese in breve tempo a tutto il Sud dell’Iraq. I manifestanti chiedono lavoro, salari più alti, servizi e accusano di corruzione la classe politica dirigente. Secondo la Banca mondiale il 22,5% degli iracheni vive infatti con meno di due dollari al giorno.
Il governo ha imposto il coprifuoco a Amara, Kut e Nassiriya. Non è possibile spostarsi, uscire o stare in strada. Sabato scorso era stato revocato il coprifuoco per la capitale Baghdad e in migliaia sono tornati in piazza: a fine giornata si contavano già 5 vittime. Uomini armati con indosso abiti neri hanno fatto irruzione negli uffici dell’emittente televisiva Al-Arabiyadi proprietà saudita e di altre tv locali della Capitale. A Nassiriya sono invece state assaltate i luoghi istituzionali e le sedi dei partiti .
Per il momento restano fuori dagli scontri le zone del Nord e le regioni occidentali e nel frattempo il presidente del parlamento Muhammad Halbusi cerca di placare gli animi promettendo “misure urgenti” per identificare “i funzionari corrotti e processarli, offrire posti di lavoro e alzare i salari”.
Le reazioni internazionali
Jeanine Hennis-Plasschaert, rappresentante del segretario generale dell’Onu per l’Iraq, ha lanciato un appello affinché si metta fine al crescendo delle tensioni, mentre il segretario di Stato degli Stati Uniti ha espresso il sostegno di Washington al governo iracheno.
Anche la Russia sembra preoccupata che la situazione possa diventare fuori controllo. Oggi il ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov è arrivato a Baghdad per una visita prevista da giorni con il premier iracheno Adel Abdel Mahdi. Seguirà un colloquio con le autorità curdo-irachene basate a Erbil, capitale della regione autonoma del Kurdistan.
Alcuni manifestanti ritengono che dietro la repressione delle proteste ci sia l’Iran e in diverse città sono state bruciate alcune bandiere iraniane. A queste accuse ha risposto con un messaggio su Twitter la Guida suprema di Teheran, l’ayatollah Ali Khamenei: “Gli iraniani e gli iracheni sono due nazioni inseparabili e non saranno divise dai complotti dei nemici. I corpi, i cuori e le anime delle nazioni iraniana e irachena sono legati gli uni agli altri attraverso la fede in Allah e l’amore per Ahl ul Bait (la famiglia del profeta Maometto, ndr) e Hussein (il terzo imam sciita)”, ha scritto.
Gli ultimi scontri
Il numero delle vittime nella Capitale è cresciuto ancora questa notte: almeno 15 persone sono state uccise nel sobborgo meridionale di Sadr City, dove ci sono stati forti scontri tra la polizia e i dimostranti. Il quartiere è una delle roccaforti dell’influente leader sciita Moqtada Sadr, che nei giorni scorsi si è espresso pubblicamente in favore delle richieste di piazza.
La protesta non ha per il momento un colore politico ma sono molte le figure che stanno cercando di porsi alla guida del malcontento. La dura repressione delle manifestazioni ordinata dal governo di Adel Abdel Mahdi ha accresciuto la sfiducia nella possibilità di un cambio di rotta politico e ha contribuito ad accrescere la tensione. Moqtada Sadr invoca elezioni: “Per evitare un’ulteriore spargimento di sangue iracheno, il governo si deve dimettere e devono tenersi elezioni anticipate sotto la supervisione dell’Onu” ha detto. Con il suo sostegno aspira probabilmente a rivendicare un ruolo di rilievo nella gestione della fase successiva alle proteste.
Il premier iracheno ha mantenuto toni concilianti nei confronti dei manifestanti, ma la repressione ha lasciato pochi dubbi sulla linea che il governo intende mantenere e la piazza di Tahrir per il momento non sembra intenzionata a credergli.