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Home » Esteri

Stupri, percosse, torture: nell’Iran in fiamme per le proteste, la vendetta degli ayatollah è contro le donne

Immagine di copertina
Credit: AP Photo/Gregorio Borgia

Stupri. Percosse. Torture. E il silenzio della magistratura. In nome della repressione. Il giro di vite del regime contro le proteste si inasprisce. E a portarne i segni sono i giovani che lottano per la libertà

Majid Reza Rahnavard aveva 23 anni ed è stato il primo manifestante iraniano a essere giustiziato, in pubblico il 12 dicembre scorso, per aver partecipato alle proteste scoppiate in Iran per l’uccisione di Mahsa Amini. Era stato condannato in un processo durato un giorno. La famiglia di Mohammad Mehdi Karami, impiccato sabato 7 gennaio, ha denunciato che non gli era stato permesso di scegliere un avvocato e che il legale assegnato loro non ha risposto alle chiamate. E non sono casi isolati.

Secondo Hrna, l’agenzia di stampa dell’organizzazione no-profit iraniana Human Rights Activists, sono circa 20mila le persone arrestate in seguito alle proteste, mentre Iran Human Rights riporta che almeno 100 accusati rischiano di essere condannati a morte e che sono stati privati del diritto di parlare con un proprio legale. Quattro sono già state uccise. I processi, denunciano gli attivisti, si stanno svolgendo a porte chiuse, in tempi record, con confessioni ottenute sotto tortura e in molti casi senza assistenza legale.

Crimini impuniti
Un rapporto di Amnesty International afferma che due adolescenti e un uomo di 31 anni sono stati violentati dalle guardie carcerarie e aggrediti gravemente. Mehdi Mohammadifard ha subito lesioni anali e sanguinamento rettale e Javad Rouhi è stato sottoposto a gravi percosse e fustigazioni: lo hanno legato a un palo, lo hanno picchiato sulle piante dei piedi e gli hanno posto del ghiaccio sui testicoli. Secondo Amnesty, agli imputati è stato negato il diritto di scegliere un avvocato e la loro udienza è durata pochi minuti.

Mentre le organizzazioni a tutela dei diritti umani riportano sempre più casi di violenze e trattamenti brutali ai detenuti, il britannico Guardian ha parlato con alcuni di loro. La sera del 15 ottobre 2022, quando le proteste in Iran dopo la morte di Mahsa Amini erano al loro apice, Laleh (nome di fantasia), una ragazza di 25 anni, è stata fermata mentre guidava in una città della provincia settentrionale di Gilan. Il checkpoint era caotico, circa 30 agenti di sicurezza armati gridavano e urlavano alle persone di uscire dai veicoli. Laleh era con sua sorella e due amici maschi, è scesa dall’auto, la polizia ha cominciato a perquisire il veicolo e quando ha trovato due lattine di vernice spray nella borsa di sua sorella, si è scatenato l’inferno. Le due giovani hanno detto di essere state bendate e legate, prima di essere spinte nella parte posteriore di un’auto della polizia; quando sono arrivate in un edificio, sono state costrette a firmare una confessione dicendo che stavano protestando, prima di essere separate. Rimasta sola nella stanza in cui venivano condotti gli interrogatori, Laleh ha raccontato di aver sentito le urla dei suoi amici maschi, probabilmente sotto tortura. Durante l’interrogatorio è stata insultata e picchiata ripetutamente dalle forze di sicurezza. «Mi hanno coperto il viso, non vedevo nulla. Mi hanno spogliata dicendomi che una dottoressa sarebbe entrata nella stanza per visitarmi, ma dopo pochi minuti mi sono accorta che la persona che mi stava toccando ovunque, era un uomo», ha raccontato. «Ha preso un oggetto e lo ha inserito più volte nella mia vagina, mentre con l’altra mano toccava il resto del corpo». Quando Laleh è stata rilasciata, alle 3 del mattino, ha dovuto guidare diverse ore prima di arrivare a casa. Nei giorni successivi un medico le ha detto che le ferite avevano causato un’infezione. Psicologicamente, non è ancora guarita.

Non è un caso unico: anche altri manifestanti, uomini e donne, hanno affermato di aver subito stupri e torture mentre erano detenuti. Alcuni sono stati aggrediti nei furgoni della polizia o per strada, altri nelle carceri. Un’infermiera di un ospedale di Gilan ha detto di aver visitato diverse donne negli ultimi mesi con evidenti segni di violenza sessuale: «Ho trattato almeno cinque ragazze con infezioni vaginali, alcune di loro avevano i genitali sanguinanti». 

Nilufar (nome di fantasia), una donna di 40 anni di Sanandaj, nella regione del Kurdistan, ha affermato di essere stata aggredita sessualmente durante la prima ondata di proteste, avvenute lo scorso settembre. «Otto agenti mi hanno trascinata in un veicolo, mi hanno preso a calci, mi toccavano il seno e le natiche. Sentivo le loro mani premere tra le mie cosce e le parti intime. Nel furgone c’erano altre tre ragazze. Hanno usato i nostri hijab per imbavagliarci e quando ho chiesto loro perché in quel momento non si stessero scandalizzando nel vedere i miei capelli, hanno risposto con calci alla schiena e alle gambe. Una di queste donne è stata picchiata così selvaggiamente che è rimasta paralizzata, non si è mossa di un centimetro». Una volta in carcere, Nilufar è stata interrogata per ore, ogni giorno, per due settimane. «Non ho raccontato a mio marito che sono stata stuprata, non so se confidarmi con la mia famiglia. Immagino che questo sia il prezzo da pagare per la libertà».

Anche Human Rights Watch ha documentato abusi e aggressioni sessuali ai manifestanti detenuti, affermando che la comunità internazionale non stava facendo molto per cercare di fermare le torture. Kamyar (nome di fantasia), un 30enne di Mashhad, una città del nord-est dell’Iran, ha confessato di essere stato abusato sessualmente dalla polizia il 9 novembre. «Non stavamo nemmeno cantando slogan quando degli agenti si sono avvicinati e mi hanno portato in un loro veicolo, erano in due: uno si è strofinato sul mio pene e l’altro mi ha aggredito da dietro. Trovo ancora difficile parlarne. Non ricordo nemmeno i loro volti. Non voglio».

Complicità istituzionali
I pubblici ministeri iraniani sono inoltre accusati di aver coperto gli stupri compiuti da due membri delle Guardie Rivoluzionarie. Il documento, originariamente trapelato a Iran International dal gruppo hacktivista Edalat-e Ali, rivela una violenza sessuale compiuta da due agenti nei confronti di una ragazza di 18 anni e di una donna di 23. Le due erano state accusate di «aver agito in modo sospetto» e i loro telefoni erano stati esaminati per cercare prove riguardo la partecipazione alle proteste. Il documento è datato 13 ottobre 2022, è stato scritto da Mohammad Shahriari, vice procuratore e capo della procura generale rivoluzionaria di Teheran, ed è indirizzato ad Ali Salehi, il procuratore generale e della rivoluzione della capitale. «Considerando la natura problematica del caso, la possibilità di una fuga di queste informazioni sui social media e le false dichiarazioni da parte di gruppi nemici», si legge nella nota. «Si raccomanda che sia archiviato come documento top secret». La vicenda è emersa dopo che un agente ha chiamato una delle vittime e questa ha registrato la conversazione e sporto denuncia. Il processo però non si è celebrato e la repressione non si è mai fermata.

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