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Iran: la premio Nobel per la Pace Narges Mohammadi racconta le condizioni di detenzione nel carcere di Evin dove è detenuta Cecilia Sala

Immagine di copertina

La vincitrice del premio Nobel per la pace 2023 Narges Mohammadi, imprigionata in Iran dal novembre 2021 e rilasciata lo scorso mese per 21 giorni per motivi di salute, ha raccontato le condizioni di detenzione nel carcere di Evin di Teheran, dove dal 19 dicembre è detenuta anche la giornalista Cecilia Sala.

“Non c’è spazio per la normalità in un carcere iraniano per detenuti politici”, ha spiegato Narges Mohammadi in una rara intervista concessa alla rivista francese Elle, che potrebbe costarle cara al suo ritorno in prigione. “Al di là del fatto che lì vengono detenute arbitrariamente persone innocenti, l’isolamento è uno degli strumenti di tortura più comunemente utilizzati”. 

“È un luogo dove muoiono i prigionieri politici”, ha ricordato la premio Nobel per la pace 2023. “Ho documentato personalmente casi di tortura e gravi violenze sessuali contro le mie compagne di prigionia”. Ma, ha aggiunto Narges Mohammadi, “nonostante tutto, per noi prigionieri politici è una sfida lottare per mantenere una parvenza di normalità, perché si tratta di mostrare ai nostri carnefici che non saranno in grado di spezzarci”. 

“La vita”, secondo l’attivista iraniana, “deve sempre prevalere nonostante la violenza e la morte che cercano di seminare”. “Il morale è la chiave per sopravvivere per sopportare le privazioni, la separazione dai propri cari, la violenza”, ha rimarcato Narges Mohammadi, secondo cui la lotta delle donne iraniane continua anche dietro le sbarre.

“La sezione femminile del carcere di Evin è un luogo dove continua la violenza del governo religioso tirannico, autoritario e misogino, ma è anche un luogo da dove le donne resistono e impongono vita e gioia”, ha spiegato la premio Nobel per la pace 2023. “Recentemente, quarantacinque prigioniere su settanta si sono riunite per protestare nel cortile della prigione contro la condanna a morte di Pakhshan Azizi e Varisheh Moradi, due nostre compagne detenute e attiviste per i diritti delle donne curde”, ha ricordato Narges Mohammadi. “Organizziamo spesso sit-in nei cortili, nonostante il divieto formale delle autorità carcerarie, dove cantiamo slogan contro la pena di morte, contro l’apartheid di genere e contro la Repubblica islamica. Per tutta risposta, le autorità ci hanno privato dei telefoni e abbiamo ricevuto ulteriori condanne davanti ai tribunali rivoluzionari, di cui non abbiamo riconosciuto la legittimità”.

Le condizioni di detenzione, ha ricordato l’attivista iraniana, sono molto dure per le prigioniere politiche a Evin. “Sono stato prima in isolamento per sessantaquattro giorni, senza interrogatori, senza accesso al telefono né alcuna visita”, ha spiegato Narges Mohammadi. “Successivamente sono stata inviata al tribunale rivoluzionario, bendata, coperta con un chador e con le infradito, privata della presenza di un avvocato e dell’accesso al mio fascicolo di accusa. Mi sono rifiutata di difendermi davanti a questo tribunale, di cui non riconosco la legittimità, e sono stata condannata a otto anni e tre mesi di carcere e 74 frustate. Sono stata trasferita nel carcere di Qarchak, a sud della capitale, dove le condizioni sono deplorevoli. Successivamente sono stata mandata nel carcere di Evin a Teheran, dove mi trovo tuttora. Non mi è stato permesso di parlare con i miei figli per due anni e da quando ho vinto il Premio Nobel nell’ottobre 2023 l’accesso telefonico ai miei contatti, compresi i miei parenti in Iran, è stato interrotto. Non ho più diritto alle visite, né della mia famiglia in Iran, né del mio avvocato. Ogni dichiarazione che faccio sui giornali probabilmente mi porterà nuove accuse, e ogni mese circa sono oggetto di nuovi procedimenti giudiziari e nuove condanne. È un prezzo alto da pagare per la libertà, ma è anche un dovere”.

Nella sua lotta però Narges Mohammadi non è sola. “Nella sezione femminile (del carcere di Evin, ndr) siamo settanta, di ogni provenienza, di ogni età e di ogni sensibilità politica”, ha ricordato l’attivista iraniana. “Alcuni delle mie compagne di prigionia hanno ricevuto lunghe pene detentive dopo aver già scontato pene molto lunghe. Ci sono giornaliste, scrittrici, intellettuali, persone di diverse religioni perseguitate, bahai, curdi, attiviste per i diritti delle donne… Sono donne forti”. “Nel profondo del mio cuore e della mia anima, auguro la vera libertà, cioè la fine dell’oppressione e del dispotismo religioso”, ha concluso Narges Mohammadi.

La giornalista 29enne Cecilia Sala, detenuta dal 19 dicembre scorso in Iran perché accusata di aver violato la legge islamica, è reclusa proprio nel carcere di Evin in regime di isolamento. Qui è costretta a dormire per terra e con la luce costantemente accesa, con l’ausilio di sole due coperte: una per coprirsi e una, stesa sul pavimento, che funge da materasso. Le autorità iraniane le hanno confiscato gli occhiali da vista e il pacco che le era stato inviato dal Governo italiano – contenente articoli per l’igiene personale, quattro libri, sigarette, un panettone e una mascherina per coprire gli occhi – non le è mai stato consegnato.

Ieri, l’ambasciatrice Paola Amadei, ha consegnato al governo iraniano una nota della Farnesina che chiede “garanzie totali sulle condizioni di detenzione di Cecilia Sala” e la sua “liberazione immediata”. Il sospetto è che dietro il fermo di Cecilia Sala ci sia la volontà da parte del regime di Teheran di intavolare una trattativa con l’Italia per arrivare alla scarcerazione di Mohammad Abedini Najafabadi, l’ingegnere svizzero-iraniano esperto di droni arrestato a Malpensa il 18 dicembre scorso su richiesta degli Stati Uniti con l’accusa di passare informazioni strategiche all’Iran.

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