“Noi, giovani dissidenti in fuga dall’Iran: la polizia spara contro chi protesta”
"La notte in cui sono stato colpito dalla polizia non stavo protestando. Ero uscito di casa per comprare alcune cose per la mia famiglia. Un’auto con dei militari si è fermata e mi hanno sparato cinque colpi. Perché spari a qualcuno che non protesta?"
“Voglio parlare, ma non posso mostrare il mio volto. In questo momento, mia mamma e mia sorella minore sono ancora in Iran e la Repubblica islamica si vendica sui parenti quando scappiamo”. La ragazza seduta davanti a noi si accende una sigaretta e ci dice che possiamo chiamarla “Rose”.
“Alcuni giorni dopo la morte di Jina, ho visto un video di sua madre che urlava all’ospedale”, continua. “Ho quasi 33 anni e come donna, avendo passato tutta la mia vita sotto la persecuzione, la tortura, l’oppressione della Repubblica islamica, ho capito cosa stava passando la madre di Jina. Per questo ho deciso di unirmi alle manifestazioni”.
Rose è una donna curda iraniana. Come Jina Amini, conosciuta dai media occidentali col nome di “Masha”, come doveva essere chiamata ufficialmente in Iran, perché la Repubblica islamica vieta di usare nomi curdi.
Un anno fa Jina (Mahsa) Amini moriva, a 22 anni, dopo essere stata arrestata dalla polizia morale perché non portava correttamente il velo. Da quel giorno scoppiava la protesta dietro lo slogan “Donna Vita Libertà!”, nato proprio nel Kurdistan Iraniano ma questa volta intonato da donne e uomini in ogni parte del Paese. Chi è sceso in piazza ha pagato quella pretesa di libertà stravolgendo il corso della propria vita.
È la storia di Rose e di molti altri attivisti che abbiamo seguito, mentre cercano un posto sicuro oltre ì confini dell’Iran.
“Mi hanno arrestata durante una manifestazione e mi hanno chiuso in una stanza obbligandomi a spogliarmi davanti alle telecamere: dovevo girarmi, nuda, davanti a ogni telecamera. C’erano altre donne arrestate e ci hanno obbligato a bere l’acqua dal water. Non potevamo piangere, non potevamo parlare, non potevamo fare nulla, non ci lasciavano dormire. Mi hanno rilasciata dopo 13 o 14 giorni di prigione”.
Una volta uscita, Rose ha capito che doveva fuggire e non tornare mai più. La sua vita era cambiata per sempre. “Ho cercato un avvocato e lui mi ha detto che dovevo lasciare l’Iran, se volevo salvare la mia vita e quella dei miei cari. Mi avevano accusato di terrorismo e di collaborare con i Paesi europei contro il regime. Una delle prove sarebbe che sto imparando il tedesco. Potete crederci?” .
Amnesty International denuncia che nell’ultimo anno la pena di morte è stata usata sempre di più come strumento di repressione politica per spaventare la popolazione: sette manifestanti sono stati impiccati al termine di processi vergognosamente irregolari. Decine di persone restano a rischio di essere condannate a morte in relazione alle proteste.
La fuga è l’unica scelta. Una scelta obbligata anche per Amir – nome di fantasia – un ragazzo molto giovane che parla bene inglese ed è appassionato di informatica. “Per scappare ho passato il confine dalle montagne, camminando in condizioni fisiche terribili. Mi avevano sparato. La notte in cui sono stato colpito dalla polizia non stavo protestando. Ero uscito di casa per comprare alcune cose per la mia famiglia. Questo è inspiegabile per me. Perché spari a qualcuno che non protesta? Un’auto con dei militari si è fermata e mi hanno sparato cinque colpi con il fucile che spara centinaia di proiettili. Per poco non sono morto lì sul posto”.
Amir è stato salvato da una donna che l’ha nascosto in casa propria e le immagini che mostra dal cellulare sono scioccanti: la schiena crivellata da centinaia di proiettili gronda sangue. Ci spiega che quelle armi sono spesso usate contro chi manifesta. Specie nel Kurdistan iraniano.
Uno dei frammenti raggiunge il polmone di Amir che viene d’urgenza portato in una clinica segreta e operato. “Per ragioni di sicurezza non posso dire chi mi abbia aiutato. Non posso dare le informazioni esatte su quello che è successo quella notte. Posso solo dire che mi hanno operato velocemente e senza anestesia e dopo poco tempo mi hanno chiesto di andarmene perché le guardie della rivoluzione fanno le ronde negli ospedali in cerca di manifestanti”.
Amir e Rose hanno paura a restare in Iraq, troppo vicino e sotto l’influenza dell’Iran. Sanno che anche lì non sono al sicuro. “Hanno distrutto la mia vita. Hanno distrutto tutto”, dice Rose. “Quando pensi che la tua vita non sarà più la stessa e non vedrai mai più la tua famiglia, i tuoi amici, né il tuo Paese, è molto difficile. Ma so che un giorno, presto, saremo liberi, perché i cittadini iraniani non hanno più paura di loro. Lo puoi vedere”.