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Iran, elezioni presidenziali: il riformista Pezeshkian va al ballottaggio

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Il deputato riformista Massoud Pezeshkian Credit: ZUMAPRESS.com / AGF

Al secondo turno del 5 luglio dovrà vedersela con l'oltranzista conservatore ed ex negoziatore dell’accordo internazionale sul nucleare Said Jalili

Il deputato riformista Massoud Pezeshkian ha superato il primo turno delle elezioni presidenziali tenutesi il 28 giugno in Iran e andrà al ballottaggio il prossimo 5 luglio contro il candidato principalista (conservatore) ed ex negoziatore dell’accordo internazionale sul nucleare Said Jalili.

Pezeshkian, secondo i risultati ufficiali, ha raccolto circa 10,4 milioni voti, pari al 44,4 per cento, mentre Jalili si è fermato al 40,3 per cento, equivalente a 9,5 milioni di preferenze.

Le consultazioni erano state convocate dopo la morte del presidente Ebrahim Raisi, scomparso lo scorso 19 maggio in un incidente in elicottero. Dopo il ritiro di due candidati principalisti, il sindaco di Teheran Alireza Zakani e il direttore della Fondazione dei Martiri Amir Hossein Ghazizadeh Hashemi, in corsa erano rimasti soltanto in quattro.

Oltre a Pezeshkian e Jalili, alle elezioni presidenziali in Iran erano candidati anche il presidente del Parlamento Mohammad-Bagher Ghalibaf, che ha conquistato 3,4 milioni voti, pari al 14,4 per cento, e il religioso Mostafa Pourmohammadi, ex ministro degli Interni, arrivato ultimo con solo lo 0,9 per cento e poco meno di 206.400 preferenze.

Tra i risultati che colpiscono di più c’è anche il dato sull’affluenza, scesa ancora rispetto alle politiche dello scorso 1 marzo quando solo il 41 per cento degli iraniani andò a votare per il rinnovo del Majles (il Parlamento) mentre stavolta solo 4 su 10 si sono recati alle urne, segnando l’elezione meno partecipata della storia dell’Iran dalla rivoluzione del 1979. Affluenza in calo anche in confronto alle presidenziali del 2021, quando il numero di votanti superò di poco il 48 per cento degli aventi diritto.

D’altra parte, ieri, le autorità hanno dovuto più volte prorogare l’orario di chiusura dei seggi, arrivando a concludere le operazioni di voto alla mezzanotte ora locale (le 22,30 in Italia) per consentire agli elettori rimasti in fila di recarsi alle urne. Era stato lo stesso ayatollah Ali Khamenei a invitare la popolazione a non astenersi. “L’orgoglio e l’onore dell’Iran dipendono dalla partecipazione del popolo”, aveva dichiarato ieri mattina la Guida Suprema della Rivoluzione, che non vedrà messo in dubbio il proprio potere.

Una delle poche certezze di queste elezioni riguarda il fatto che il prossimo presidente sarà un civile e non un religioso sciita come i due precedenti, Hassan Rouhani e Ebrahim Raisi, il che significa che non potrà essere preso in considerazione come un potenziale successore dell’85enne Khamenei, che guida l’Iran ormai da 35 anni dalla morte dell’ayatollah Ruhollah Khomeini.

Sfida al vertice
Malgrado i tempi brevi, la campagna elettorale è stata molto più combattuta rispetto al precedente del 2021, quando Raisi vinse al primo turno con il 72 per cento delle preferenze, una consultazione però a cui i riformisti praticamente non parteciparono a causa di una serie di limitazioni legali (lo stesso Pezeshkian fu escluso per decisione del Consiglio dei Guardiani). Stavolta invece la presenza di un candidato indipendente e di ben cinque (poi tre) principalisti avrebbe dovuto favorire l’affluenza e, forse, le chance del parlamentare riformista.

Il cinque volte deputato, rappresentante del collegio di Tabriz, è soltanto il secondo nei 45 anni di storia della Repubblica Islamica ad arrivare al ballottaggio delle elezioni presidenziali. L’unico precedente risale infatti al 2005 quando il conservatore (oggi escluso dal sistema politico) Mahmoud Ahmadinejad sostituì il presidente riformista uscente Mohammad Khatami, sconfiggendo un altro ex capo dello Stato, Ali Akbar Hashemi Rafsanjani.

Proprio durante il secondo mandato di Khatami, tra il 2001 e il 2005, Pezeshkian fu ministro della Salute in virtù della sua esperienza da cardiochirurgo. Poi, dal 2016 al 2020, è stato vicepresidente del Majles. Padre vedovo di 69 anni, il deputato iraniano ha quattro figli ma una è morta in un incidente stradale insieme alla moglie e lui non si è mai più risposato, crescendo da solo gli altri tre, tutti residenti in Iran.

Originario della provincia dell’Azerbaijan occidentale, Pezeshkian parla fluentemente sia il turco che l’azero, lingua quest’ultima di cui promuove l’insegnamento nelle scuole. Assurto all’onore delle cronache per aver criticato apertamente in Parlamento nel 2009 la repressione delle proteste per la rielezione di Ahmadinejad, il deputato è conosciuto anche per aver accusato il governo di non fornire i dati reali dei contagi durante la pandemia di Covid-19.

Ma Pezeshkian non ha lesinato critiche nemmeno sull’annosa questione dell’obbligo del velo per le donne, una delle cause del vasto movimento di protesta che ha scosso il Paese dal settembre del 2022 con la morte della giovane Mahsa Amini, arrestata e quindi uccisa per non aver rispettato le norme sul codice di abbigliamento femminile. “Per 40 anni abbiamo cercato di controllare l’hijab, ma abbiamo solo peggiorato la situazione”, ha lamentato il deputato mentre la maggior parte degli altri candidati ha adottato un atteggiamento molto più cauto sul tema.

In politica estera invece punta su una nuova apertura dell’Iran “a tutti i Paesi, tranne Israele”. Il medico, che ha ricevuto il sostegno dell’ex ministro degli Esteri Javad Zarif, artefice dell’accordo sul nucleare iraniano fallito a causa del ritiro unilaterale degli Usa voluto da Donald Trump, vuole migliorare i rapporti con gli Stati Uniti e l’Europa per superare le sanzioni che danneggiano gravemente l’economia dell’Iran.

Un punto su cui è invece decisamente contrario il suo sfidante Said Jalili, uno dei più fervidi sostenitori dell’inflessibile fermezza di Teheran contro l’Occidente. Il 59enne, veterano della guerra combattuta tra Iran e Iraq negli anni Ottanta (in cui ha perso parte della gamba destra, è infatti considerato tra i maggiori oppositori a un accordo con gli Stati Uniti.

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