In Libia si continua a combattere
A tre anni dalla morte di Gheddafi, la pace sembra un miraggio. Negli ultimi mesi sono morte più di 600 persone
La Libia ha perso la sua identità. Il Paese si trova in balìa di forze eterogenee che combattono quotidianamente per conquistare il potere nella regione.
Se gli attuali protagonisti delle tensioni erano rimasti uniti nella lotta contro Gheddafi, sorvolando su molte delle loro differenze, dalla morte del dittatore nel 2011 il precario equilibrio politico e sociale si è definitivamente rotto.
Il risultato è una guerra civile che va avanti da tre anni, una comunità internazionale che non sa più come intervenire e un costante deterioramento dei confini della Libia.
Il processo democratico del Paese procede a rilento. Il Consiglio nazionale generale, in carica dall’agosto 2012, non essendo in grado di stilare la nuova Costituzione aveva deciso di indire le elezioni per il 25 giugno scorso. L’obiettivo: eleggere i 200 membri del Consiglio dei rappresentanti, il nuovo organo politico incaricato di redigere la carta costituzionale.
Il verdetto elettorale è stato eloquente: solo il 20 per cento degli aventi diritto è andato a votare, segno di una disaffezione crescente verso le autorità politiche considerate legittime a governare.
L’errore più grande compiuto dal governo centrale del primo ministro Abdel Rahim el-Kib, che al momento ha sede a Tobruk, a 1.200 chilometri dalla capitale Tripoli, è stato quello di non essere riuscito a disarmare le numerose milizie che si sono contrapposte a Gheddafi, non formando un esercito regolare, ancora oggi definito in modo poco chiaro.
La guerra civile presenta due teatri di scontro: l’est e l’ovest. A Bengasi e dintorni (fronte orientale), oltre alla presenza attiva dei federalisti della Cirenaica, si registrano scontri tra gli islamisti di Ansar al-Sharia, che sembrano avere un solido controllo sulla zona, e l’Esercito Nazionale di Khalifa Haftar, ex-comandante in pensione che sta aspettando di essere ufficialmente riconosciuto dal governo centrale. Ieri, 21 agosto, durante i combattimenti tra le due fazioni, sono morte altre 5 persone.
Negli scontri sono stati colpiti numerosi giacimenti petroliferi della regione che hanno causato ingenti danni economici al Paese. Solo negli ultimi dieci mesi, infatti, sono andati perduti 30 miliardi di dollari. Il rendimento mensile, prima dello scoppio della guerra civile, era di 4-5 miliardi di dollari, oggi è diminuto a 1 miliardo.
Sul fronte occidentale, invece, il conflitto si è focalizzato sull’aeroporto di Tripoli, crocevia essenziale per il controllo della Libia. Recentemente, la struttura è stata bombardata da alcuni aerei che non sono stati ancora identificati. La Nato ha negato ogni tipo di responsabilità.
Da diversi mesi, le milizie nate dopo la caduta di Gheddafi si stanno fronteggiando alle porte della capitale. Gruppi fondamentalisti islamici provenienti dalla città di Misurata stanno cercando di prendere il controllo dell’aeroporto dalle mani della milizia di Zintan, fedele alla coalizione “Forze di alleanza nazionale” del moderato Mahmoud Gibril, ex primo ministro.
Lo “scatolone di sabbia” ha un ultimo protagonista nel suo scacchiere: le minoranze etniche. Amazigh, Tibu e Tuareg si battono quotidianamente per ottenere un riconoscimento ufficiale dal governo. L’obiettivo di questa lotta è molto chiaro: vedersi riconosciuta la propria identità, come ad esempio la lingua locale.
Mentre il futuro della Libia risulta molto difficile da decifrare, si stima che negli ultimi mesi siano morte più di 600 persone. Ma c’è chi crede in una soluzione politica che abbia come protagonista il governo centrale.
“Una soluzione militare non è possibile. Bisogna tornare alla politica, anche perché le milizie armate al momento controllano la base sociale del Paese”, ha commentato Karim Merzan, politologo esperto di Nord Africa.