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Il vecchio e il nuovo Iraq

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Le violenze che stanno attraversando l'Iraq dipendono in gran parte dalla centralizzazione del potere da parte di Maliki

Mentre nel 2010 le truppe americane stavano lasciando l’Iraq, lo sforzo degli Stati Uniti per stabilizzare il Paese somigliava al compito di un uomo esausto che cerca di spingere un masso in cima ad una collina. Lo sforzo si era proteso a lungo, e la vetta era ormai vicina. Era giusto smettere di spingere e sperare che l’inerzia avrebbe portato verso il masso fino in cima? O con la fine della spinta il masso sarebbe caduto inesorabilmente e lentamente verso il basso?

Ora lo sappiamo – e onestamente, è difficile esserne sorpresi. In questi giorni l’Iraq è fuori controllo, e nessuno di questi problemi è uscito dal nulla. Durante gli ultimi attacchi sferrati tra i quartieri sciiti di Baghdad e nel nord dell’Iraq, più di trenta persone sono rimaste uccise. Le violenze hanno seguito gli scontri tra l’esercito iracheno e i ribelli sunniti in alcuni quartieri di Kirkuk, Nineveh e di Diyala, dove il governo federale aveva temporaneamente perso il controllo della situazione.

I segnali negativi abbondano: le milizie di civili armati si stanno riattivando, le bombe stanno prendendo di mira le moschee di sunniti e sciiti, e alcune forze militari si stanno smantellando dividendosi in fazioni basate sui legami etnici. Molte parti della politica irachena – curdi, sunniti e sciiti – sono esasperate dall’incapacità del governo di risolvere le iniquità economiche e politiche, e stanno iniziando a pensare seriamente a un’eventuale secessione.

Il 23 aprile le forze militari federali sono intervenute in una protesta nella città di Hawija, trasformandola in una sparatoria dove sono rimasti uccisi numerosi civili. Questo evento corre il rischio di portare ad una chiamata alle armi da parte di gruppi come al-Qaeda in Iraq (Aqi) e i il movimento neo baathista Naqshbandi.

Il Washington Institute for Near East Policy ha un database dove registra le violenze in Iraq sin dal 2004. Nei primi tre mesi del 2011, c’è stata una media di 358 attacchi mensili – la più bassa dal 2004. Ma nel primo trimestre del 2012 gli attacchi sono saliti a 539, nel 2013 a 804. Questi numeri non sono solo la prova che l’insurrezione sta crescendo, ma che le violenze contro gli americani si sono trasformate in attacchi tra fazioni irachene.

Quindi cosa accadrà? Alcuni veterani, come l’ex ambasciatore americano in Iraq Ryan Crocker, vede questo periodo come il ritorno alla situazione del 2006-2007, quando l’Iraq era immerso in violenze da guerra civile. Ma c’è un altro periodo ancora più somigliante: il 2003, quando gli errori della coalizione internazionale hanno dato l’opportunità ai gruppi di ribelli di crescere e prendere piede in varie zone del Paese.

Il governo iracheno sta facendo alcuni errori simili a quelli commessi tempo prima dagli Stati Uniti: sta isolando i sunniti e occupando le loro comunità facendosi spazio con interventi militari pesanti, che non fanno distinzione tra le masse di ribelli da quelle di civili pacifici. Il governo ha cercato di deviare le colpe dei suoi fallimenti sulla guerra civile siriana, dicendo che la violenza derivava dai combattimenti nel Paese confinante. Ma queste scuse non convincono – le misure di sicurezza erano state abbassate ancor prima che la crisi siriana prendesse vita, nell’estate 2011. La violenza non può nemmeno essere solamente circoscritta all’antico odio fra sunniti e sciiti: è tornata all’ordine del giorno a causa dal governo di Baghdad, che non vuole mettere fine alla punizione collettiva nei confronti dei sunniti a causa dei crimini del regime baathista.

Ma il vero motivo della violenza in Iraq è la centralizzazione del potere nella sola Baghdad, arrivata troppo presto, facendo nascere sospetti tra le diverse etnie. Gli Stati Uniti inizialmente erano a conoscenza di questo pericolo: la forma di condivisione del potere -muhasa in arabo- era una pietra miliare della politica Usa in Iraq prima del 2008; gli Stati Uniti fecero anche sì che il principio di decentralizzazione della politica fosse presente nella costituzione irachena. Questa politica ha riflesso una solenne verità: che l’Iraq post Saddam non era pronto a un sistema fatto da vincitori e perdenti assoluti.

Ma a partire dal 2008 Maliki ha ricentralizzato il potere, e si è affidato a una cerchia sempre più stretta di consiglieri sciiti, vecchi avversari della dittatura di Saddam. Come accade per tutti i rivoluzionari di successo, il gruppo è terrorizzato da una possibile controrivoluzione, e ha messo in piedi un sistema autoritario come quello che ha cercato di rovesciare per decenni. La cerchia di Maliki ha potere sulla selezione di tutti i comandanti militari, controlla la corte federale e si è impadronito della banca centrale. Il braccio esecutivo sta rapidamente togliendo tutti i controlli che furono messi per garantire che non riemergesse una nuova dittatura.

Le radici della violenza in Iraq non sono solo l’odio tra sunniti e sciiti, o curdi e arabi, ma nascono dalla questione centralizzazione e decentralizzazione – e anche tra chi vorrebbe che l’Iraq si lasciasse alle spalle il passato violento e chi è ancora determinato a combattere. Le richieste più insistenti fatte dalle opposizioni anti-Maliki dei curdi e dei sunniti non potrebbero essere più chiare. Primo, l’opposizione chiede la delega dell’autorità fiscale al Kurdistan Regional Government (Krg) e alle province. Secondo, chiede l’implementazione di un sistema di controlli sul potere esecutivo, in particolare potenziando le funzioni del parlamento e istituendo una giustizia indipendente. Terzo, chiede un processo di riconciliazione nazionale, che dia giustizia alle vittime del regime di Saddam, ma che netta fine alle violenze indiscriminate contro i sunniti.

Gli Stati Uniti hanno gettato le basi per queste tradizioni democratiche, e possono avere ancora voce in capitolo nel cercare di riportare l’Iraq sulla retta via. Su questo fronte ci sono alcuni segnali incoraggianti. Il segretario di Stato John Kerry ha iniziato a parlarne con Maliki, e ha messo l’Iraq nelle prime sfide che andranno affrontate. Washington si è attivata per portare gli i funzionari iracheni e turchi a discutere dei loro interessi a lungo termine riguardanti l’energia, nella prospettiva di un corridoio strategico che farebbe passare il petrolio iracheno più attraverso la Turchia e meno attraverso lo stretto di Hormuz, vicino all’Iran. Dovendo affrontare le milizie sunnite e addirittura le sfide dall’interno della sua comunità sciita – come mostrano i deludenti risultati delle elezioni provinciali – Maliki potrebbe assumere un insolito aspetto conciliatore nei confronti di curdi, sunniti e turchi.

La violenza in Iraq continuerà a peggiorare finché il potere sarà centralizzato. I sunniti e i curdi hanno bisogno di una ragione convincente per rimanere all’interno del quadro che si sta dipanando in Iraq. Le elezioni del 2014 offriranno un potenziale punto di partenza per il processo di ricostruzione della nazione, ma rimpiazzare Maliki non può essere la sola premessa per salvare il Paese. L’attuale premier potrebbe benissimo vincere: ha molti vantaggi alle urne, incluso il controllo di molti ministeri chiave, degli apparati di intelligence e di sicurezza e delle corti federali. La chiave di volta è assicurare che chiunque guiderà l’Iraq dopo il 2014 sentirà la pressione della comunità internazionale, per far tornare il Paese a una struttura politica più libera e democratica.

Se Washington sceglie di sostenere la decentralizzazione del potere in Iraq, non sarà sola. Per diverse ragioni interne, quasi tutti gli attori nel teatro iracheno -l’opposizione, i turchi e anche gli iraniani – auspicano un governo con meno divisioni interne. In altre parole, con qualche sforzo la situazione si può risolvere. L’esperimento di avere un uomo forte a Baghdad non ha dato un Iraq migliore. Allentare i nodi che tengono l’Iraq unito è un rischio, ma stringerli è un pericolo ancora maggiore.

Articolo di Foreign Policy per The Post Internazionale
Traduzione di Samuele Maffizzoli

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