Perché crolla il prezzo del petrolio
Quali sono le cause che hanno portato il prezzo del petrolio a diminuire considerevolmente tra il 2014 e il 2016?
A gennaio 2016 il prezzo del petrolio è sceso al di sotto dei 28 dollari a barile, il dato più basso dal 2003 a oggi. Un anno esatto prima – gennaio 2015 – era sceso con grande sorpresa sotto i 50 dollari al barile per la prima volta da aprile del 2009 (solo tre settimane prima, a dicembre 2014, era intorno ai 70 dollari al barile).
Non solo: il prezzo del petrolio è sceso di oltre il 40 per cento da giugno 2014, quando si attestava intorno ai 115 dollari a barile. Un calo netto e costante, in caduta libera, dopo cinque anni di stabilità nei prezzi dell’oro nero.
In questi giorni, ad aprile 2016, la notizia che il vertice dei paesi Opec non hanno raggiunto alcun accordo sulla produzione di petrolio rende il quadro ancora più cupo.
L’obiettivo del vertice fallito non era tanto quello di tagliare la produzione del petrolio quanto piuttosto quello di congelarla ai livelli di gennaio 2016, come era previsto da un’intesa provvisoria raggiunta a febbraio per sostenere il rialzo delle quotazioni, diminuite di oltre il 50 per cento nel corso degli ultimi mesi.
Il congelamento della produzione di petrolio era volto anche a fermare la spirale di ribassi che sta mettendo in difficoltà le economie dei paesi che negli ultimi decenni sono cresciute soprattutto grazie alle esportazioni.
Perché il prezzo del petrolio crolla, e perché nel biennio 2014-2016 sta scendendo?
Il prezzo del petrolio è determinato in parte dalla domanda e dall’offerta effettiva, e in parte dalle aspettative. La domanda di energia è strettamente legata all’attività economica. E raggiunge picchi anche durante l’inverno nell’emisfero nord e durante l’estate nei paesi che usano aria condizionata.
L’offerta può essere influenzata dalle condizioni climatiche (che possono impedire il caricamento delle petroliere) e dagli sconvolgimenti geopolitici. Se i produttori credono che il prezzo resterà alto, investono, contribuendo ad incrementare l’offerta, trascorso un lasso di tempo.
Analogamente, i prezzi bassi portano a un calo degli investimenti. Le decisioni dell’Opec modellano le aspettative: se sceglie di diminuire bruscamente l’offerta, può far schizzare in alto i prezzi. L’Arabia Saudita produce circa 10 milioni di barili al giorno – un terzo del totale della produzione Opec.
Quattro fattori hanno influenzato la diminuzione del prezzo del petrolio.
Prima di tutto, la domanda è bassa a causa della debolezza dell’attività economica, per l’incremento dell’efficienza e per la conversione crescente dal petrolio ad altri combustibili.
In secondo luogo, i disordini in Iraq e Libia – due grandi produttori di petrolio, con circa 4 milioni di barili al giorno in totale – non hanno influito sulla loro produzione. Il mercato è diventato così più ottimista rispetto al rischio geopolitico.
In terzo luogo, gli Stati Uniti sono diventati i maggiori produttori di petrolio al mondo. Sebbene non esportino greggio, ora importano molto meno, lasciando offerta in eccesso.
Infine, i sauditi e i loro alleati del Golfo hanno deciso di non sacrificare la propria quota di mercato per ristabilire il livello dei prezzi. Loro potrebbero diminuire bruscamente la produzione, ma i maggiori benefici sarebbero per paesi che detestano, come Iran e Russia.
D’altronde l’Arabia Saudita può sopportare facilmente un livello dei prezzi più basso. Ha riserve per 900 miliardi di dollari e sostiene costi molto bassi per estrarre il petrolio (circa 5-6 dollari a barile).
Gli effetti ricadono principalmente sulle attività più rischiose e vulnerabili del settore petrolifero. Queste includono il fracking (tecnica estrattiva della fatturazione idraulica, ndr) cui ricorrono i produttori americani che si sono indebitati molto prevedendo livelli alti per i prezzi. Includono anche i progetti ad alto costo delle aziende petrolifere occidentali, come le trivellazione in profondità o nell’Artico, o investimenti in aree molto sfruttate e sempre più costose come i giacimenti nel Mare del Nord.
Ma le conseguenze peggiori spettano ai paesi dove i regimi si basano sull’alto prezzo del petrolio per pagare costose avventure all’estero e dispendiosi programmi sociali. Tra questi la Russia (che è già incorsa nelle sanzioni da parte dei paesi occidentali per l’intromissione in Ucraina) e l’Iran (che sta pagando per tenere a galla il regime di Assad in Siria).
Gli ottimisti pensano che i problemi economici potrebbero rendere questi paesi più propensi a cedere alle pressioni internazionali. I pessimisti temono che una volta messi all’angolo, siano spinti per disperazione a contrattaccare.
Parte dell’analisi di questo articolo è stata pubblicata in originale su The Economist