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Il festival più grande del mondo

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La festa di Kumbh Mela, in India, ha radunato decine di milioni di fedeli

Il festival più grande del mondo

Nel mese di ‘magha’ (febbraio-marzo) 80 milioni di pellegrini si sono bagnati nelle acque sacre del Sangam, la confluenza dei due fiumi più venerati dall’induismo, per conquistare la ‘moksha’, la salvezza dal ciclo delle reincarnazioni, e lavare via i peccati di una vita. Ad Allahabad, in India settentrionale, ogni 12 anni si celebra il Maha Kumbh Mela, il più grande pellegrinaggio e raduno umano al mondo, che si concluderà il 10 marzo.

Anche se non si vede, un terzo fiume si unisce al Gange e allo Yamuna: il Saraswati, sotterraneo, invisibile, mitologico. È qui, al ‘Triveni Sangam’, che milioni di induisti sono confluiti da tutto il subcontinente, in autobus, in treno, su jeep stracariche o a piedi, come tradizione vorrebbe. Vecchi, donne, bambini, ricchi, poveri e sadhu, uniti dalla fede e da un rito di purificazione che si tramanda da secoli.

Le sue origini sono incerte e affondano nella mitologia, nella lotta tra dei e demoni per il possesso di un’anfora, ‘kumbh’, piena di nettare dell’immortalità. Quattro gocce caddero a Ujjain, Haridwar, Nasik e Prayag (nome premoghul di Allahabad) dove oggi, in base a precise congiunzioni astrali, si celebrano i festival legati al mito del kumbh. Sì, il più grande raduno induista in una città dal nome musulmano: questa è l’India.

Una distesa di tende, ai lati del ponte che attraversa il Gange, si estende sulle tre sponde del Sangam: una gigantesca città tendata, precaria e barocca, eretta in pochi mesi sul letto del fiume. Da qui svettano i pennoni degli ‘ashram’ (i luoghi di meditazione) dei grandi guru che tuonano senza sosta ipnotici mantra dagli altoparlanti.

Anche se solo per qualche giorno, il Kumbh Mela è diventato la ‘città’ più grande al mondo con i suoi oltre 30 milioni di fedeli a cavallo del 10 febbraio, quando avviene il Mauni Amavasya, il bagno principale.

Alla vigilia delle date propizie fissate dall’astrologia, i pellegrini sono arrivati senza sosta, un fiume umano incanalato in file compatte, ordinate, ondeggianti di donne con borsoni in equilibrio sulla testa e grappoli di bambini attaccati ai sari. Hanno dormito ovunque, negli ashram, sui tetti, nei templi, accampati ai lati della strada o in tende di fortuna per ripararsi dal freddo delle notti invernali.

È ancora buio quando il flusso umano, ordinato e silenzioso, si dirige verso il Sangam, illuminato a giorno da luci giallo ocra. Le rive sono stracolme di gente, una massa colorata e brulicante, corpi nudi e intirizziti, sguardi estasiati, schizzi, grida e mani congiunte verso il sole che sorge. La polizia, con fischietti e manganelli di bambù, garantisce che il flusso di gente scorra, così che tutti possano raggiungere la riva e, con un tuffo, liberarsi dai peccati. Le barricate di legno sono gremite di gente che si accalca per assistere allo show degli show, la corsa dei sadhu verso il Sangam.

Divisi in Akhara, in base al dio che venerano, i sadhu sono monaci erranti, un tempo guerrieri asceti, che vivono una vita di meditazione e distacco dal mondo materiale; scalzi e vestiti solo di un drappo bianco o arancione, il colore della rinuncia, sono rispettati e venerati come personificazioni del divino. I Naga sono i primi a bagnarsi, secondo un ordine preciso stabilito per evitare le lotte tra Akhara che in passato hanno insanguinato il Sangam: una corsa primitiva, senza tempo, una mandria compatta di corpi nudi, grigi di cenere; ghirlande di garofani arancioni al collo e lunghi dreadlock attorcigliati sulla testa. Brandiscono spade e tridenti, urlano, lanciano fiori sulla folla. Sono i Naga sadhu, la più controversa tra le sette: asceti militanti devoti di Shiva, dio creatore e distruttore, usano girare nudi, con la pelle cosparsa di cenere, simbolo di morte e rinascita, fumano charas (hashish) in pipe di terracotta e sono soliti mortificare il proprio pene con violente pratiche per desensibilizzarlo.

Sono certamente l’attrazione del festival e la parata dura fino a mattina inoltrata, quando il sole è ormai alto e la città costruita sul letto del fiume somiglia a un grande circo in un deserto; il lezzo delle migliaia di latrine inizia a prevalere sull’odore di cloro, sparso lungo le strade per contenere le epidemie. Gli altoparlanti gracchiano senza sosta nomi urlati tra le lacrime, grida disperate di chi, nella folla, ha perso i propri familiari.

L’organizzazione del festival, un’enorme sfida logistica diventata oggetto di uno studio interdisciplinare all’università di Harvard, è stata esemplare, titanica. Ma non è riuscita a evitare una tragedia annunciata: 36 persone sono morte nella ressa creatasi alla stazione di Allahabad dopo Mauni Amavasya, quando migliaia di pellegrini si apprestavano a tornare nei propri villaggi.

Presto della “città più grande al mondo” resterà solo il ricordo, sommerso dalle acque sacre e inquinate del Gange e dello Yamuna, gonfiati dalle piogge del monsone.

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