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Il culto della Santa Muerte

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La Santa raccoglie milioni di fedeli in Messico e non solo. Ma secondo la Chiesa è un culto blasfemo e legato al narcotraffico

Quando nel 2000 Doña Queta espose il suo altare alla Santa Muerte al numero 12 di calle Afarería nel quartiere di Tepito, a Città del Messico, difficilmente avrebbe immaginato che da lì a poco migliaia di fedeli da tutto il Paese avrebbero iniziato un pellegrinaggio verso casa sua per venerare la Flaquita (com’è anche chiamata la Santa Muerte).

Portano con sé doni di ogni tipo: candele, cibo, bottiglie di tequila, sigarette e anche marijuana, che lasciano ai piedi della statua (alta circa un metro e settanta) per chiederle favori e benedizioni. Il poliziotto chiede di tornare a casa sano e salvo, il criminale chiede di guardargli le spalle durante un colpo, l’operaio chiede di finire il turno con tutti e quattro gli arti intatti, i familiari dei carcerati chiedono la libertà per i loro cari e altri ancora pregano la Santa Muerte affinché interceda e faccia innamorare l’uomo o la donna desiderata.

Dopo secoli di clandestinità, il culto della morte (rappresentata come uno scheletro di donna riccamente vestito) si dimostrò più vivo che mai e ansioso di uscire alla luce del sole.

Le sue origini risalgono probabilmente a quel calderone di riti e credenze che era il Messico coloniale, quando la spiritualità della tradizione indigena andò assimilandosi, plasmandosi e incorporandosi ai dettami dalla Chiesa cattolica e dando talvolta origine a nuovi sincretismi mai accettati dal Vaticano stesso.

Tra questi, la venerazione della Santa Muerte è uno di quelli che più hanno sperimentato la mano dura dell’inquisizione spagnola. Attraverso proibizioni, torture ed esorcismi questo culto popolare cadde nell’oblio, sopravvivendo nel chiuso delle case dei poveri e dei reietti, di chi con la morte aveva a che fare quotidianamente e che vedeva nella sua mano scheletrica la possibilità di una redenzione.

Questa situazione di clandestinità durò fino alla fine degli anni Novanta, quando i ritrovamenti di altari alla Santa Muerte nelle case di criminali e narcotrafficanti le valse la reputazione di narcosanta e la portò agli onori della cronaca. Ne scaturì una grande produzione di testi e film più o meno seri, dove questo stereotipo veniva perpetuato a uso e consumo di un immaginario che talvolta scaturiva nel pop più sfrenato.

Quando si chiede a Doña Queta, una forte donna di 65 anni che vanta sette figli, 57 nipoti e 24 bisnipoti, se al suo altare si presentano anche narcos, lei risponde: “Certamente, loro credono alla Santa Muerte come molti altri. Lei è molto giusta e ascolta tutte le preghiere”.

La signora Queta, così come la Santa, non discrimina tra guardie e ladri. Accoglie tutti al suo altare che ogni primo giorno del mese si affolla di migliaia di fedeli per la preghiera del rosario, durante la quale vengono dedicate apposite preghiere a detenuti, prostitute e tossicodipendenti. Doña Queta si arrabbia solo quando vede bande di ragazzini che approfittano del caos accumulatosi nella via per drogarsi. “È una mancanza di rispetto nei confronti della Santa e dei suoi fedeli”, dice.

Enriqueta Romero (questo il suo vero nome) è una fervente cattolica. Crede nella Vergine di Guadalupe così come in San Giuda Taddeo (il secondo Santo più pregato in Messico) oltre che in tutti gli altri santi della Chiesa cattolica. Non le importa se il Vaticano continua a considerare blasfemo e anticattolico questo culto, così come non sembra importare ai milioni di fedeli che si stanno espandendo anche oltre i confini del Messico.

Un mese fa il cardinal Ravasi, il presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, durante una visita a Città del Messico lo definì “un culto blasfemo, una degenerazione della religione” e pose fortemente l’accento sulla sua presunta appartenenza al mondo degli efferati cartelli messicani del narcotraffico.

Per alimentare questa visione i giornali locali ripresero molto un fatto di cronaca avvenuto nello stato di Sonora a marzo 2012, quando vennero ritrovati i cadaveri di due bambini e una donna che, secondo le indagini, sarebbero stati oggetto di sacrificio alla Santa Muerte.

Le esternazioni di Ravasi sono solo l’ultimo episodio di una lotta secolare del Vaticano contro questa fede clandestina che non ha organizzazione, non ha caste né gerarchie. Nei primi anni Novanta David Romo Guillén, arcivescovo della Iglesia Católica Tradicional MEX-USA provò a istituzionalizzare il culto. I suoi tentativi però non ebbero successo e ora David Romo sta scontando una condanna a 66 anni di reclusione. È accusato di aver organizzato sequestri di persone ai fini di estorsione.

Luci e ombre si susseguono all’interno di un culto che sfugge ai tentativi di classificazione e inquadramento. La sua natura spontanea e popolare e il suo essere radicato nelle zone più tradizionali e povere del Paese lo rendono però l’unica risposta per chi, abbandonato da Stato e Chiesa, trova nella sua mano scheletrica una fonte, forse l’unica, di speranza.

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