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Home » Esteri

I dolori del sultano

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Gli scandali, le scissioni e la sfida per la leadership. Erdogan è ancora il padrone della Turchia?

Fuori dalla Turchia l’eco è arrivato meno forte, perché la piazza fa più rumore dei palazzi. Ma persino oltre la rivolta di Gezi esplosa la scorsa estate, a far tremare il trono di Tayyip Erdoğan è un terremoto giudiziario, subito (e inevitabilmente) diventato politico. I fatti si mettono presto in fila. Un clamoroso scandalo di corruzione – soldi in cambio di appalti facili e trame di denaro per favorire grandi aziende, turche ed estere – che a partire dal 17 dicembre ha coinvolto decine di persone vicine al governo e, nei fatti, il governo stesso. Sfiorato in tre ministri, presto spinti alle dimissioni dall’arresto dei figli nell’inchiesta, l’esecutivo di Ankara ha dovuto affrontare un maxi rimpasto che ha portato al cambiamento di ben dieci membri, rimpiazzati da fedelissimi del premier. Una caratteristica, questa, diventata oggi decisiva come mai in passato nelle maglie di un partito, l’Akp (Giustizia e Sviluppo), che ha governato compatto il Paese per undici anni.

Ora, compatto non lo è più. È questa la prima, grande novità di queste settimane: mai prima d’ora la leadership di Erdoğan era stata messa in discussione all’interno dell’Akp e della sua area di riferimento – saldamente maggioritaria nella Turchia degli anni Duemila – dell’Islam politico. Improvvisamente, il premier viene sfidato dai suoi. Alcuni, certo. Ma è già una rivoluzione per chi si considerava – e veniva considerato – non un capo, ma l’unico capo possibile. Ancor di più se si scorre la lista dei deputati dimissionari dell’Akp, che contiene nomi pesanti come l’ex ministro della Cultura Ertuğrul Günay e nomi celebri come l’ex centravanti e star della nazionale di calcio Hakan Şükür.

Dunque, oggi Erdoğan si può sfidare. La forza per farlo, i suoi l’hanno trovata nel sostegno dell’altro maggiorente dell’Islam politico turco, diventato un modello di trionfi per il mondo musulmano: il magnate e imam Fetullah Gülen. Con la rottura delle ultime settimane, il suo ruolo non è più solo materia per retroscenisti politici. Anzi, proprio a questo scontro ai vertici dello Stato c’è chi fa risalire la regia dell’inchiesta anti-corruzione che sta facendo vibrare il premier. Perché Gülen, sempre presente nella politica turca pur restando dietro le quinte e a un oceano di distanza, nella polizia come nella magistratura avrebbe non pochi seguaci. Dal suo esilio autoimposto in Pennsylvania, la guida spirituale e materiale dell’impero finanziario cresciuto intorno alla confraternita islamica Hizmet (Servizio) aveva lanciato il guanto di sfida già con alcuni attacchi alle scelte più intransigenti del premier su politica estera e libertà personali.

Come già nei giorni di “Occupy Gezi Park”, e quasi ogni volta che finisce nel mirino delle critiche di Ong e istituzioni internazionali, Erdoğan grida al complotto. La sua risposta, per ora, sta nella poco sobria epurazione (via trasferimento) di circa duemila funzionari di pubblica sicurezza che considera ostili, e nella sottrazione dell’inchiesta ai pm che indagavano, tra gli altri, sul presunto coinvolgimento di suo figlio Bilal in questa Tangentopoli turca. E poi, nel tentativo (esplicito) di porre i giudici sotto il diretto controllo del governo.

Aspettarsi una verità dirimente dai tribunali appare inutile, almeno finché la loro indipendenza non sarà finalmente fuori discussione. Piuttosto, è una verità politica quella che i più adesso attendono e che arriverà già tra un paio di mesi, nelle elezioni amministrative che apriranno la strada alle presidenziali – per la prima volta a suffragio universale diretto – fissate in estate, e alle politiche del prossimo anno. Secondo alcuni analisti, la rottura con Gülen potrebbe costare all’Akp anche due milioni di voti. Un rischio probabilmente calcolato, per un partito che alle ultime politiche ne ha presi più di 20. Ma da allora molto è cambiato, e persino l’immagine dell’economia turca, vessillo dell’era Erdoğan, non è più così smagliante: in sei mesi, con cadute progressive e – come in questi giorni – a tratti rovinose, la nuova lira turca ha toccato i minimi storici contro euro e dollaro. Ancora, Erdoğan resta imbattuto. Ma forse, non più imbattibile.

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