I bambini che nessuno vuole
In Kosovo, la disabilità è vista ancora come un disonore e chi ha problemi di questo genere viene emarginato o abbandonato
Tutto è cominciato con lui. Un bambino che nessuno voleva più perché tenerlo poteva essere causa di ritorsioni da parte dell’Uck, l’“esercito di liberazione del Kosovo” che, durante la guerra del ’99, ha tentato di cacciar via i serbi dal Paese.
A Zlokucane, nella municipalità di Kline, in Kosovo, il progetto della Caritas Umbra (sezione della Caritas italiana approdata nei Balcani durante le vicende legate alla dissoluzione della ex Jugoslavia) è nato così. Massimo Mazzari e sua moglie Cristina non se la sentivano di lasciare un ragazzino da solo.
Già la madre lo aveva abbandonato. Poi il padre, di etnia rom, aveva preso la stessa decisione. Perseguitato dall’Uck, che riteneva i rom colpevoli di collaborazionismo con i serbi, pensava forse di riservare a suo figlio un futuro migliore, sperando che qualche anima buona lo adottasse. Ma nei villaggi nessuno voleva prendersi cura del bambino.
Così Massimo e Cristina sono andati a prenderlo. Quando il piccolo li vide, la sua prima reazione fu quella di arrampicarsi su un albero per fuggire. “Ce n’è voluta, per convincerlo a scendere”, ha raccontato Massimo. Ma proprio in quel momento, la Caritas da poco approdata in Kosovo, dopo attività in Serbia e Macedonia, si è stabilita definitivamente nel Paese balcanico.
Da oltre quindici anni l’organizzazione accoglie bambini che nessuno vuole. Da allora, i due coniugi hanno conosciuto tante storie drammatiche, bambini soli che non trovano accoglienza. Più di cento ragazzini sono passati per la comunità e molti sono stati reinseriti nelle famiglie o mandati a studiare in Italia.
Attualmente, le case fondate dai due italiani con l’aiuto della Kfor (Kosovo Force), la missione della Nato attiva in Kosovo, ospitano una ventina di minori e dieci maggiorenni di tutte le etnìe e appartenenze religiose. Sono ragazzi che hanno problemi psicologici e fisici, abbandonati dalle famiglie.
In Kosovo, la disabilità è vista ancora come un disonore e chi ha problemi di questo genere viene emarginato o abbandonato.
Ora gli ospiti di Massimo e Cristina lavorano in una cooperativa agricola. In questo progetto tanti volontari si inseriscono di volta in volta. Alcuni ragazzi si prendono un periodo sabbatico e lo impiegano così, facendo volontariato, senza pretendere nulla se non l’alloggio, e affrontando il viaggio a proprie spese. Ma non solo giovani volontari, anche professionisti, ingegneri, falegnami, idraulici, che offrono le loro competenze per costruire, progettare e suggerire idee.
Il contingente italiano della missione Kfor, che opera nel settore ovest del Paese, riveste un ruolo di primo piano ed è riuscito a realizzare le sale della casa, la rimessa agricola, l’officina meccanica, il sistema idrico.
“È una fortuna che la Caritas umbra abbia deciso di stabilirsi permanentemente qui”, afferma una signora del villaggio “perché molti bambini, destinati altrimenti alla strada, hanno la possibilità di provare a costruirsi un futuro, pur tra mille difficoltà. Qui in Kosovo il percorso per l’accettazione della diversità è ancora troppo lungo”.
Per dedicarsi a questo progetto, Massimo ha abbandonato la Toscana, dove gestiva un albergo. Ha smontato tutto e ora porte, scaffali, armadi della sua struttura alberghiera sono diventate porte, armadi e scaffali delle case dei bimbi abbandonati.
Quest’anno la casa si trasferirà in una nuova struttura, molto vicina a quella attuale. I lavori sono già cominciati e spesso ad aiutare sono gli ex ospiti della casa famiglia. Massimo e Cristina cercano sempre di mantenere i contatti con chi è passato dalla loro casa e informarsi sulla vita che conducono. “Certo, ci sono quelli che ce l’hanno fatta e chi si è perso. Del resto non possiamo tenerli sotto una campana di vetro. La vita è così”, dice Cristina.
C’è anche chi, grazie a lei e a suo marito, ha ritrovato una vita normale. Il primo bimbo ospitato ora è un adulto. Dopo tante vicissitudini, si è finalmente ricongiunto al padre e insieme lavorano come guardiani delle ville degli emigrati, a Peć. Dunque hanno trovato un futuro nello stesso Paese, il Kosovo, che con le sue complicate vicende ha causato loro tanta sofferenza.