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Hong Kong: annullati i passaporti di sei attivisti per la democrazia rifugiatisi nel Regno Unito

Immagine di copertina
Credit: Joseph Chan / Unsplash

Il governo di Hong Kong ha annunciato oggi l’annullamento dei passaporti di sei attivisti per la democrazia “latitanti” nel Regno Unito, dove si sono rifugiati per sfuggire alla repressione del dissenso da parte della Cina, definendoli “criminali ricercati fuori legge”.

Per giustificare l’annullamento dei passaporti di Nathan Law, una delle figure di spicco del movimento democratico ed ex candidato eletto al Consiglio legislativo (il Parlamento della città), del sindacalista Mung Siu-tat e degli attivisti Simon Cheng, Finn Lau, Fok Ka-chi e Choi Ming-da, l’amministrazione della Regione amministrativa speciale cinese hanno invocato la seconda Legge sulla sicurezza nazionale, entrata in vigore nel marzo scorso nel rispetto dell’articolo 23 della Legge Fondamentale (la Costituzione di Hong Kong).

“Continuano a impegnarsi apertamente in attività che minacciano la sicurezza nazionale”, si legge in un comunicato diramato dal governo. “Abbiamo quindi adottato una serie di misure per infliggere loro un duro colpo”, prosegue la nota, che lo “annullamento” dei passaporti rilasciati da Hong Kong. Tutti i soggetti destinatari del provvedimento sono accusati di “collusione con una potenza straniera” e “incitamento alla secessione e alla sovversione”, reati che secondo la Legge sulla sicurezza nazionale sono punibili con pene fino all’ergastolo.

Su Facebook, Nathan Law ha definito la misura “superflua” visto che il Regno Unito gli ha concesso asilo politico nel 2021. “Per quanto riguarda le altre misure adottate (ai sensi della Legge sulla sicurezza nazionale, ndr), se sollevano preoccupazioni tra gli amici a Hong Kong, per favore mettete al primo posto la vostra sicurezza personale”, ha dichiarato Law.

“È ridicolo cancellare qualcosa che non è mai esistito”, ha invece commentato su X (ex Twitter) Finn Lau, spiegando di non aver mai avuto un passaporto “British National Overseas”, rilasciato ai residenti della città nati prima del 1997, anno della riunificazione dell’ex colonia britannica con la Cina. “Il ricorso all’articolo 23 (della Legge Fondamentale, ndr) è un atto esplicito di repressione transnazionale e un’altra violazione della Dichiarazione congiunta sino-britannica”, ha aggiunto, riferendosi all’accordo firmato nel 1984 da Londra e Pechino che garantisce a Hong Kong un elevato grado di autonomia “almeno fino al 2047”.

Nel dicembre scorso, l’esecutivo locale aveva messo una taglia da un milione di dollari di Hong Kong (poco più di 119mila euro) sulla testa di 13 attivisti per la democrazia rifugiatisi all’estero, accusandoli di aver violato la legge sulla sicurezza nazionale cinese, suscitando le proteste dei governi degli Stati Uniti e del Regno Unito dove si sono rifugiate alcune di queste persone. “È una minaccia alla nostra democrazia e ai nostri diritti umani fondamentali”, aveva dichiarato allora il ministro degli Esteri britannico David Cameron.

Il capo del governo cittadino John Lee, sanzionato dagli Stati Uniti per il ruolo giocato come comandante delle forze sicurezza nella repressione delle proteste del 2019, aveva invece ribadito che gli attivisti ricercati saranno “perseguitati a vita”, invitandoli a consegnarsi alle autorità cinesi, che hanno precisato come chiunque fornisca fondi, affitti proprietà o concluda affari con queste persone sarà passibile di una condanna fino a sette anni di carcere.

L’annuncio di oggi arriva in occasione del quinto anniversario delle manifestazioni del movimento per la democrazia scese in strada a Hong Kong nel 2019. Per reprimere il dissenso e i moti di protesta, nel giugno 2020 Pechino impose una prima Legge sulla sicurezza nazionale che, applicata retroattivamente, ha consentito di perseguire gli attivisti in tutto il mondo e di far scontare loro la pena nelle carceri sul continente.

Secondo l’Hong Kong Security Bureau, dal 2020 almeno 249 persone sono state arrestate in città ai sensi della Legge sulla sicurezza nazionale. Almeno 10.279 invece sono state fermate per le proteste del 2019, di cui 2.955 sono state incriminate per vari reati tra cui “riunione illegale”, “sedizione”, “ostacolo alle forze dell’ordine” e “aggressione”.

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