Processo alla democrazia: gli “Hong Kong 47” finiscono alla sbarra e con loro l’ultima speranza dell’opposizione a Pechino
È il più grande procedimento penale contro gli oppositori politici nell’ex colonia britannica. 31 imputati si sono dichiarati colpevoli. Altri 16 sono in attesa di giudizio. Tutti sono accusati di eversione da Pechino per aver organizzato le primarie del 2020. E ora rischiano l’ergastolo
Hong Kong, 6 febbraio. Alle 5 del mattino un centinaio di persone è già in fila in attesa fuori dalla West Kowloon Court per assistere al più grande processo mai celebrato in città contro gli attivisti per la democrazia dalla stretta di Pechino sulle libertà politiche. L’atmosfera è tesa e la polizia è in stato di allerta. Gli agenti schierati nei pressi del tribunale indossano giubbotti antiproiettile. Le strade limitrofe sono costellate di posti di blocco. Le autorità sorvegliano l’area con i blindati, mentre le unità cinofile si assicurano che non vi siano esplosivi dentro e nelle vicinanze del tribunale. E persino un elicottero sorvola la zona.
In molti hanno passato la notte dietro le transenne e il cordone di sicurezza installato dalle autorità. Poco prima dell’apertura delle porte, alcuni manifestanti inscenano una protesta organizzata dalla Lega dei socialdemocratici – l’ultimo partito politico rimasto in città a battersi per la democrazia – guidata da Chan Po-ying, moglie di uno degli imputati, l’ex deputato Leung Kwok-hung, detto “il capellone”. Non scoppiano i disordini temuti dalle autorità, ma la polizia ferma un dimostrante, il vicepresidente del partito Dickson Chau Ka-fat, accusato di aver violato le regole sull’uso della mascherina. Intanto però l’orologio segna le 10 ed è finalmente consentito l’ingresso nell’edificio. Tutto il quarto piano è stato riservato all’udienza, altro segno del nervosismo del governo locale. Fuori, tra i presenti, ci sono anche alcuni diplomatici stranieri, rappresentanti dei consolati di Regno Unito, Stati Uniti, Australia, Canada, Nuova Zelanda, Germania, Svezia, Austria, Repubblica Ceca, Francia e anche dell’Italia. Poi è il turno degli imputati.
Movente politico
Li chiamano gli “Hong Kong 47”: alcuni sono politici navigati, altri veterani delle proteste contro Pechino, altri ancora accademici, sindacalisti e persino operatori sanitari. Hanno poco in comune, appartengono a generazioni diverse (vanno dai 24 ai 66 anni) e a culture politiche differenti, ma il regime li considera tutti un pericolo per la sicurezza nazionale o meglio per il controllo del Partito comunista cinese sull’ex colonia britannica.
Arrestati nel gennaio di due anni fa, sono accusati di aver organizzato delle primarie non autorizzate prima delle elezioni del 2020, a cui parteciparono oltre 600mila persone. Fu, come l’hanno definito i pubblici ministeri nelle 139 pagine dell’atto d’accusa, un piano «imponente e ben preparato volto a sovvertire il governo di Hong Kong». Già nel 2019, l’opposizione aveva ottenuto una straordinaria vittoria alle elezioni per i consigli distrettuali, ottenendo 390 seggi su 452. Un risultato importante nonostante il limitato potere delle assemblee locali. Con le primarie però intendeva prepararsi a conquistare i seggi contendibili al Consiglio legislativo, il parlamento cittadino (allora comunque controllato per metà da deputati nominati e fedeli a Pechino, 35 su 70). Piccolo particolare: alla fine quell’anno le elezioni non si tennero, ufficialmente causa Covid, e furono organizzate soltanto nel dicembre del 2021, dopo una contestata riforma elettorale che ha di fatto reso impossibile la vittoria delle opposizioni e limitato a meno di un quarto (20 su 90) i seggi eleggibili.
Al contempo è cominciata la repressione, come previsto dalla legge sulla sicurezza nazionale approvata nel maggio del 2020 da Pechino, fino ad arrivare ai primi processi. E questo è il più grande e importante, non solo per il numero degli accusati ma perché questi rappresentano uno spaccato dell’opposizione a Pechino. Tra loro figurano infatti gli ex deputati Helena Wong Pik-wan, Lam Cheuk-ting, Raymond Chan Chi-chuen e Leung Kwok-hung, oltre alla giornalista Gwyneth Ho, alla sindacalista Winnie Yu Wai-ming, al noto giurista Benny Tai e all’attivista 26enne Joshua Wong. Tutte figure ben note sulla scena politica locale.
Due anni di calvario
I primi a entrare in aula sono gli imputati rilasciati su cauzione. Quindi tocca a tutti gli altri, portati in tribunale a piccoli gruppi. Dei 47 imputati, 31 si sono già dichiarati colpevoli, compresi Joshua Wong e Benny Tai. Per loro si tratterà soltanto di attendere la fine del processo per conoscere l’entità della condanna. Gli altri sedici, tra cui Raymond Chan e Gwyneth Ho, sono in attesa di giudizio. Tutti rischiano una condanna all’ergastolo, ma sono in carcere da tempo.
Il calvario giudiziario dei “47 di Hong Kong” dura ormai da due anni. Tutto è cominciato il 6 gennaio del 2021, quando gli imputati sono stati arrestati in una serie di raid compiuti all’alba dalla polizia. Da allora, prima dell’udienza del 6 febbraio 2023, sono stati convocati in tribunale sette volte per la fase istruttoria e il procedimento ha subito ben sei rinvii. In primis, gli accusati hanno chiesto – in 14 udienze separate – di essere rilasciati su cauzione, come previsto dal sistema di common law in vigore a Hong Kong, ma soltanto a 15 imputati è stata concessa la libertà provvisoria, due di quali però sono stati arrestati di nuovo per aver pubblicato commenti critici sui social e per aver tenuto discorsi «sovversivi». Poi hanno lottato perché le udienze e tutte le relative informazioni fossero rese pubbliche, un obiettivo raggiunto soltanto nell’agosto dello scorso anno, quando un giudice dell’Alta Corte ha revocato l’ordine impartito ai media di non pubblicare dettagli in merito al caso. Da allora, in attesa dell’apertura del processo vero e proprio e in barba al pesante clima contro le testate indipendenti, sono ricominciati i resoconti sul caso.
Ora però l’attesa è terminata. Nei prossimi 90 giorni saranno giudicati, come prevede la legge sulla sicurezza nazionale, da un collegio di tre giudici dell’Alta Corte, Andrew Chan Hing-wai, Alex Lee Wan-tang e Johnny Chan Jong-herng, e non da una giuria, come solitamente previsto nei sistemi di common law. La prima udienza è durata poco più di un paio d’ore. Una volta lette le accuse in cinese e in inglese, gli imputati hanno proceduto alle dichiarazioni di non colpevolezza. Soltanto due, tra quelli che non lo avevano già fatto, si sono dichiarati colpevoli. Uno, Ng Kin-wai, si è rivolto così ai giudici: «Non sono riuscito a rovesciare lo Stato totalitario e mi dichiaro colpevole delle accuse». Subito dopo l’udienza, una volta tornato in carcere, Ng Kin-wai è stato sottoposto a misure disciplinari, il che ha fatto gridare gli attivisti a una vendetta di Stato. Ma, al di là del singolo gesto di protesta, null’altro di significativo è avvenuto durante l’udienza, rinviata al 14 febbraio quando il pubblico ministero Anthony Chau Tin-hang ha tenuto l’arringa d’apertura e il collegio giudicante ha ascoltato quattro imputati chiamati a testimoniare in aula per l’accusa. Insomma, non è finita. Soprattutto per Pechino.
Il prezzo della repressione
Prima dei 47, soltanto tre persone sono state processate a Hong Kong ai sensi della legge sulla sicurezza nazionale. Due sono state condannate a scontare pene non inferiori a 9 anni di carcere. Un altro, l’attivista Tony Chung, dichiaratosi colpevole nel 2022, ha ottenuto una condanna a 3 anni e 4 mesi di reclusione, la pena più lieve finora emessa in casi simili. Ma nessuno di loro aveva profili politici così importanti come gli imputati del procedimento recentemente aperto presso la West Kowloon Court.
In tutto, secondo i dati raccolti dal Center for Asian Law della Georgetown University, dall’entrata in vigore della norma liberticida voluta da Pechino al 31 dicembre 2022, la polizia ha arrestato 227 persone, perseguendone penalmente 135, compresi attivisti politici, giornalisti, accademici, studenti e comuni cittadini. A oltre metà degli arrestati è stata negata la libertà su cauzione e la maggior parte è in attesa di giudizio da più di un anno. In tutto la polizia ha fermato oltre 10mila persone e più di 2.000 manifestanti hanno subito brevi periodi detentivi.
Neanche i media si sono salvati dalla scure repressiva di Pechino. Attualmente è infatti in corso un processo per eversione contro Stand News, testata ormai chiusa e in cui lavorava la giornalista e imputata con i 47, Gwyneth Ho. Non solo. Entro fine anno anche l’ex magnate dei media, Jimmy Lai, fondatore del tabloid Apple Daily costretto a chiudere un anno e mezzo fa dalle autorità cinesi, sarà processato ai sensi della nuova norma che ha schiacciato le libertà civili e criminalizzato il dissenso. La condanna sembra quasi assicurata, visto che sei ex dipendenti del giornale si sono già dichiarati colpevoli. Intanto, a gennaio, la Borsa di Hong Kong ha cancellato dal listino la società editoriale Next Digital di Jimmy Lai, che ne detiene il 71,26 per cento delle quote, provocando un danno economico stimato in oltre 90 milioni di euro.
La repressione giudiziaria ha così sostituito i manganelli. La nuova legge infatti ha introdotto quattro nuovi reati: separatismo, eversione, terrorismo e collusione con potenze straniere. Tutte fattispecie definite in modo poco specifico e applicabili a molte attività non violente compiute dall’opposizione. Tanto che persino un post sui social, un discorso pubblico o l’organizzazione di consultazioni primarie vengono considerate una minaccia alla sicurezza del regime, che non intende fermarsi.