Hatice Cengiz a TPI: “E ora liberate tutti i Khashoggi d’Arabia”
Biden solleverà la questione durante la visita nel regno saudita. “Dopo le parole aspettiamo i fatti: subito il rilascio dei detenuti politici”. A TPI parla la vedova del giornalista ucciso
Il 2 ottobre del 2018 Hatice Chengiz si trovava fuori dal consolato saudita a Istanbul in attesa che il suo compagno Jamal Khashoggi sbrigasse le commissioni per cui si trovavano lì. Ma Khashoggi, giornalista dissidente saudita-americano del Washington Post, era appena caduto in una trappola mortale. Mentre Hatice Chengiz lo aspettava in macchina, Khashoggi veniva prima colto di sorpresa da un plotone di 15 sicari, poi strangolato fino alla morte e infine smembrato, tagliato a pezzi e riposto a pezzi all’interno di una valigia.
Secondo un rapporto redatto dalla Cia a novembre 2018, l’omicidio di Khashoggi fu ordinato dal principe saudita Mohammed bin Salman. Gli investigatori turchi e un’inchiesta del New York Times erano giunti alla stessa conclusione, evidenziando lo stretto rapporto esistente tra il principe e alcuni dei membri del plotone d’esecuzione.
Da quel 2 ottobre Hatice Chengiz ha cambiato vita. Da futura sposa che vedeva un futuro familiare e lavorativo radioso davanti a sé, è diventata rapidamente una delle vittime principali di una delle uccisioni più cruente mai registrate a danno di un giornalista. Oggi ha quarant’anni e lavora come attivista per i diritti umani, con un focus speciale sul diritto di parola e di contestazione politica. «Mi sono trovata a farmi promotrice di una causa di cui prima sapevo pochissimo ma che poi mi ha investito. Gli eventi mi hanno travolta», disse a febbraio 2018 in esclusiva a TPI.
L’abbiamo raggiunta nuovamente per chiederle un commento sull’imminente visita al principe saudita Mohammed bin Salman da parte del Presidente statunitense Joe Biden. La visita – in programma per il 16 luglio – è stata criticata non appena annunciata. In un editoriale apparso sul Washington Post, Hatice Chengiz ha chiesto espressamente a Biden di non infrangere la promessa di ignorare l’Arabia Saudita e ha fatto appello alle speranze di ottenere giustizia che la stessa Hatice ha visto rinascere dopo la caduta politica di Donald Trump, che nei suoi anni da presidente non si è dimostrato interessato a lavorare in questo senso.
Nonostante le critiche, Biden ha difeso la propria scelta. Ha affermato che andrà in Arabia Saudita visti i rapporti strategici intrattenuti con gli Stati Uniti e che sul tavolo della discussione porterà senz’altro il tema dei diritti umani.
Nel suo articolo sul Washington Post ha fatto intendere che avrebbe preferito che il Presidente Biden annullasse il suo viaggio in Arabia Saudita. Tuttavia, lui ha difeso la sua scelta. Qual è stata la sua prima reazione?
«Biden ha scritto un intero articolo a riguardo e ha dichiarato che la questione dei diritti umani sarebbe stata nella sua agenda. Il che di per sé è già un buon passo in avanti. Peraltro il fatto che abbia sentito il bisogno di pubblicare un articolo ci fa capire a fondo quanto fosse consapevole della pressione mediatica fin dal giorno dell’annuncio del suo viaggio. Non è un comportamento molto comune, e penso che sia molto importante che un Presidente degli Stati Uniti scriva nero su bianco le ragioni della sua visita. Ora vedremo tutti insieme quanto c’è di vero in quel che ha detto. Ad ogni modo, spero che il rilascio delle persone al momento detenute senza motivo in Arabia Saudita sia già un successo nella ricerca di giustizia per conto di Jamal».
Ha mai avuto l’impressione che gli interessi legati al petrolio siano stati anteposti alla vita di Jamal, alla sua eredità intellettuale e alla ricerca di una giustizia effettiva?
«Diciamo che il nostro sforzo quotidiano è quello di garantire che gli interessi politici ed economici non prevalgano mai sul perseguimento della giustizia. Questo è vitale per una democrazia rispettabile, e del resto momenti come quello dell’uccisione così barbara di un giornalista sono proprio quelli in cui tutti noi abbiamo un bisogno quasi viscerale di giustizia. Penso che molte persone abbiano tentato di infangare, di sviare, di confondere le acque e rendere più difficile il corso della giustizia, e non escludo che dietro a questo tentativo ci fosse la volontà di tutelare interessi legati al petrolio o a qualche altro perverso interesse strategico. Però grazie alla lotta che stiamo conducendo ormai da quattro anni, oggi il tema della giustizia per Jamal e dell’affermazione della verità può ancora entrare nell’agenda del Presidente degli Stati Uniti».
Qual è la sua speranza principale?
«In generale la speranza è quella di ricordare a tutti e sempre che, al di là del petrolio, degli accordi politici e di altri interessi materiali, i valori umani sono comunque i più importanti e i più indispensabili. E ancora più importante è difendere la giustizia contro i potenti, a prescindere da tutto; perché io credo che la verità si debba affermare sempre indipendentemente da quanto sono potenti le parti in causa. Questa è di per sé una grande battaglia, e personalmente è tutto ciò che posso fare come essere umano. Ma comunque non è abbastanza: c’è ancora molta strada da fare per cambiare le cose».
La promessa di Biden di discutere di diritti umani col principe saudita è sufficiente per lei?
«No, e spero che faccia più di quello che dice. Ma al di là di questo, non è molto importante che io sia soddisfatta. La cosa importante è che durante questa visita Biden abbia ottenuto risultati tangibili e concreti a favore non solo degli Stati Uniti in quanto potenza politica, ma anche dei valori libertari e democratici su cui questo Paese si fonda. Come accennavo prima, ci sono innumerevoli detenuti che si trovano nelle galere saudite senza un vero motivo. In parte sono oppositori, o persone che hanno commesso crimini contro una morale assurda e bigotta. Immagino che la visita di Biden possa essere una grande speranza per loro. Mi aspetto comunque una seria pressione per porre fine all’eccessiva aggressività dell’Arabia Saudita. Penso che il meglio sarebbe trasformare questa visita in un viaggio che non contiene alcuna legittimazione politica per il principe ereditario».
Cosa dovrebbero fare oggi gli Stati Uniti con l’Arabia Saudita dopo l’omicidio di Jamal, secondo lei?
«La prima cosa che dovrebbero fare è esercitare pressioni affinché pubblichi un rapporto che riveli che i criminali sono stati perseguiti. In questo modo, cose come quelle che sono state fatte a Jamal non si ripeteranno. Condividere la verità con il mondo e spiegare dove si trova il suo corpo. È un passaggio davvero fondamentale per non far passare il messaggio che crimini così terribili e odiosi possano restare impuniti, il che in un Paese civile non è assolutamente né tollerabile né accettabile».
E invece l’Unione Europea ha fatto qualcosa a riguardo, o pensa che almeno possa fare qualcosa?
«Finora l’Ue non ha fatto nulla, e neanche i singoli Paesi membri si sono adoperati. Non hanno esercitato pressioni sugli Stati Uniti né tantomeno hanno preso alcuna decisione attiva nei confronti del principe. Né l’Ue né i Paesi membri si sono attivati per far partire un processo indipendente. È un bel peccato, vista la narrativa democratica che l’Ue dà di sé all’esterno. Diciamo quindi che il comportamento europeo a cui abbiamo assistito negli ultimi quattro anni non lascia immaginare niente di positivo per il futuro, e io personalmente non ho più neanche le aspettative. Però va detto che se l’Unione Europea dovesse intervenire su questo tema e dovesse diventare un attore cruciale per l’affermazione della verità, allora riuscirebbe comunque a ripagare il debito di giustizia che in questi anni ha accumulato nei confronti di Jamal e dello stesso concetto di giustizia».