La fabbrica del terrore e del consenso di Hamas
Armi, repressione, attentati. Ma anche ospedali, istruzione e campi estivi. Il gruppo armato governa Gaza con il pugno di ferro dal 2007, usando i civili come scudi umani. La sua ala politica però è ancora popolare. Ecco perché
Abd al-Fattah Dukhan è stato preside di una scuola nel campo profughi di al-Nusayrat, nel centro della striscia di Gaza, per più trent’anni ma ne aveva 86 quando, il 10 ottobre, è rimasto ucciso in un raid israeliano contro Hamas. “Abu Osama” però, com’era conosciuto, era più di un funzionario scolastico.
Il 9 dicembre 1987 era tra gli invitati a una riunione in casa dello sceicco Ahmad Yasin, a Gaza. Da poche ore era scoppiata una rivolta nella striscia, che sfocerà poi nella prima Intifada, e gli ospiti furono chiamati a discutere dei sanguinosi sviluppi. Sembrava un incontro come tanti tra un gruppo piccolo borghese interessato alla politica. Gli invitati erano tutti professionisti: oltre al 50enne Dukhan erano presenti anche Abd al-Aziz al-Rantissi, un medico 40enne di Khan Yunis; Ibrahim al-Yazuri, un farmacista di 45 anni di Gaza; il professor Salih Shihada, un 40enne di Bayt Hanun, docente all’Università Islamica; l’ingegnere di 35 anni, Isa al-Nashshar, di Rafah; e il 50enne Muhammad Shama, un insegnante del campo profughi di al-Shati. In realtà, da anni, erano tutti in qualche modo legati alle attività in Palestina della Fratellanza Musulmana.
Quel primo incontro si svolse di mercoledì ma fino alla fine della settimana ne seguirono altri. In principio i presenti furono tentati di mantenere un basso profilo, come già fatto durante gli anni dell’occupazione prima egiziana e poi israeliana. Alla fine però fu lo sceicco Yasin a imporre la partecipazione alla rivolta. Così, il 14 dicembre di quell’anno, i sette pubblicarono un primo comunicato della “resistenza islamica”. Fu il primo atto di quello che pochi mesi più tardi sarà lo Harakat al-Muqawama al-Islamiyya (Movimento di resistenza islamica), in acronimo Hamas (che in arabo significa “zelo”).
Radici sociali
Tutto cominciò nel 1973, a pochi mesi dallo scoppio della guerra dello Yom Kippur, dopo l’uccisione di Muhammad al-Aswad, il “Che Guevara di Gaza”, che nel marzo di quell’anno segnò la vittoria israeliana sulla resistenza nazionalista palestinese nella striscia. In questo clima, Yasin costruì una rete di attività sociali sotto il marchio al-Mujamma al-Islami, letteralmente “Centro islamico”, in piena continuità con l’idea della Fratellanza Musulmana di costruire prima una società ispirata ai principi del Corano e poi combattere l’occupazione. Conosciuto come Mujamma, offriva tutoraggio scolastico, attività sportive e persino matrimoni collettivi per ridurre i costi delle cerimonie. Il basso profilo tenuto dall’associazione fu tale che il 7 settembre 1973 un rappresentante israeliano partecipò all’inaugurazione della moschea Jawrat al-Shams, la vetrina principale dell’associazione.
Inizialmente, sembravano più interessati alla competizione con le fazioni nazionaliste palestinesi che con Israele. Tanto che, quando nel 1984 Yasin fu arrestato e condannato per aver nascosto armi in una moschea, si sospettò che l’arsenale servisse più a intimidire i rivali che ad attaccare gli occupanti. La detenzione però, conclusa nel 1985 con uno scambio di prigionieri, aumentò la popolarità di Yasin che l’anno successivo, con il moltiplicarsi degli attentati della Jihad Islamica contro Israele, istituì il Majd, che due anni dopo diventerà il servizio di controspionaggio di Hamas. Alle attività benefiche si univa così una prima organizzazione armata ufficiale, il cui scopo era duplice: proteggere l’organizzazione dalle infiltrazioni di agenti israeliani e di altre fazioni e sopprimere la devianza sociale (droga, prostituzione, etc) sia tra i membri che, idealmente, nella società. Due scopi tuttora perseguiti da Hamas.
Cambio di programma?
Ma torniamo alle origini. A otto mesi dal primo comunicato, nell’agosto del 1988, l’organizzazione terroristica pubblicò il “Patto”, il documento costitutivo di Hamas, poi superato nel 2017, che offre una panoramica delle intenzioni iniziali del gruppo. In trentasei articoli, il movimento si identificava come braccio armato in Palestina della Fratellanza Musulmana; sposava l’antisemitismo più becero con riferimenti al presunto progetto di dominio ebraico mondiale e citazioni in stile nazista dei famigerati Protocolli dei Savi Anziani di Sion; indicava gli ebrei come nemici dei musulmani e idealmente dell’umanità; proponeva la totale distruzione della “entità sionista” (Israele) come pre-condizione per liberare la terra dei palestinesi attraverso il jihad; rifiutava qualsiasi soluzione negoziata della questione, men che meno l’idea di “due popoli e due Stati”; e prospettava l’istituzione di uno Stato teocratico basato sulla sharia. Sulla base di questo programma, a due anni dalla fondazione, Hamas comincerà a commettere attentati nei territori occupati e in Israele, prendendo di mira soprattutto i civili. In particolare a partire dal 1993 per far fallire gli Accordi di Oslo, che avevano posto fine alla prima Intifada. Da allora, il gruppo non ha mai rinunciato ai suoi metodi terroristici continuando per tutti gli anni Novanta e Duemila a far esplodere autobus, a commettere attentati suicidi, rapimenti e attacchi armati.
Eppure, con la morte del fondatore Yasin in un raid aereo nel 2004 e il ritiro unilaterale di Israele dalla striscia di Gaza, qualcosa cominciò a cambiare, almeno formalmente. Dopo la seconda Intifada, l’ala politica del gruppo iniziò a contare sempre di più, anche grazie al consenso dovuto alle attività sociali promosse nei territori occupati. Nel 2006, Hamas vinse così le elezioni palestinesi, costringendo il rivale Fatah e il presidente Abu Mazen a formare un governo di unità nazionale guidato dal premier Ismail Haniyeh, attuale capo politico del gruppo. Ma durò poco perché già l’anno successivo la guerra civile portò a una separazione di fatto dei territori, con un golpe di Hamas a Gaza e l’Autorità nazionale palestinese ancora al governo in Cisgiordania.
Ci vollero dieci anni e il cambio della leadership da Khaled Meshaal a Haniyeh per modificare i propositi di Hamas, almeno sulla carta. Nel 2017, l’ultimo atto di Meshaal fu proprio la presentazione di un nuovo statuto “rivisto”. Nei quarantadue paragrafi del documento, Hamas rompe con la tradizione religiosa, si identifica come un movimento del popolo palestinese e fonda le sue rivendicazioni non più sulla legge islamica ma sul diritto internazionale; chiarisce che la sua guerra è contro Israele, che continua a non riconoscere, ma non contro gli ebrei; e conferma il rifiuto del negoziato. Ma, se da una parte continua a perseguire la creazione di uno Stato palestinese dal fiume Giordano al Mediterraneo, confermando implicitamente la volontà di cancellare Israele, dall’altro sembra fare un passo avanti. «Senza compromettere il suo rifiuto dell’entità sionista e senza rinunciare ad alcun diritto dei palestinesi, Hamas considera la creazione di uno Stato palestinese pienamente sovrano e indipendente, con Gerusalemme come capitale, entro i confini del 4 giugno 1967, con il ritorno del rifugiati e sfollati nelle loro case da cui sono stati espulsi, come accordo basato sul consenso nazionale». Insomma, un colpo al cerchio e uno alla botte, ma di certo un passo avanti per una nuova stagione, politica più che militare.
Partito di Da’wa e di governo
Il nuovo “statuto” fu il risultato di un lungo dibattito all’interno del movimento che, a differenza di altri gruppi terroristici, si regge su una struttura politica complessa. Al centro di tutto c’è un organo ufficialmente solo consultivo, il Consiglio della Shura, che però ha il potere di nominare i 15 membri del Politburo, vero organo di governo del movimento, attualmente capeggiato da Haniyeh. A questo devono rispondere i principali dipartimenti dell’organizzazione.
Il primo è dedicato agli “Affari di Gaza” ed è guidato da Yahya Sinwar, ex capo delle brigate di Hamas. Il secondo è competente per gli “Affari in Cisgiordania” e dal 2021 è stato affidato a Saleh al-Arouri, che cura personalmente anche gli interessi del gruppo in Libano. Il terzo, controllato da Salameh Katawi, si occupa dei miliziani “in carcere” mentre l’ultimo, dedicato agli “Affari della Diaspora” è guidato da due anni dall’ex leader Khaled Meshaal. Questa struttura costituisce la base per controllare il governo di Gaza, con i suoi ministeri, forze di sicurezza e autorità locali, un esecutivo che dal giugno 2021 è guidato di fatto dal premier Issam al-Da’alis.
Nella striscia, il gruppo ha istituito un sistema giudiziario e creato istituzioni autoritarie, escludendo i rivali di Fatah e abolendo di fatto le elezioni (come avvenuto anche in Cisgiordania, dove non si vota dal 2008). Inoltre, secondo Freedom House, il gruppo ha cancellato ogni meccanismo di controllo indipendente del potere, reprimendo anche i media, l’opposizione e le associazioni civili contrarie alle sue politiche, usando spesso i civili come scudi umani durante gli attacchi contro Israele.
Accanto a tutto questo però, proseguono le attività sociali, che ne foraggiano il consenso. Il gruppo controlla un’ampia rete di istituti scolastici; si occupa della distribuzione di generi alimentari di base, specie durante le festività; organizza campi giovanili e attività sportive; offre assistenza agli anziani; e finanzia moschee, borse di studio e imprese individuali. Il tutto sfruttato a fini propagandistici: ai campi estivi, alle scuole, ai luoghi di culto e a ogni altra attività si affianca infatti una capillare operazione di indottrinamento, anche dei minori, attraverso vari media, una sorta di “da’wa” (l’insegnamento islamico) deviata.
L’8 luglio scorso, ad esempio, all’apertura dei campi estivi di Hamas, a cui hanno partecipato più di 100mila bambini e adolescenti, il portavoce dell’organizzazione, Abd al-Latif al-Qanua, ha definito queste attività «un’importante tappa per crescere la prossima generazione e porre Gerusalemme e la Moschea di al-Aqsa nei loro cuori». I campi sono stati infatti chiamati “Difensore di Gerusalemme” per sottolineare l’importanza della capitale e la necessità di prepararsi a liberarla dagli «occupanti che la profanano». Tra le attività proposte ai ragazzi non c’è solo la ricreazione ma anche l’addestramento militare per i più grandi, che forse un giorno potranno entrare a far parte del braccio militare dell’organizzazione, le brigate Ezzedine al-Qassam.
Metodi omicidi e aiuti esteri
Fondate nel 1991, costituiscono l’ala armata del gruppo e la principale e più organizzata formazione che opera a Gaza, responsabile in 32 anni di decine di attentati, rapimenti e attacchi a obiettivi militari e civili israeliani e dei combattimenti con le forze armate dello Stato ebraico che, secondo l’Onu, negli ultimi 15 anni hanno provocato quasi 100mila morti e feriti da entrambe le parti.
Attualmente sono guidate da Mohammed el-Misri, nome di battaglia “Mohammed Deif”, e dal suo vice Marwan Issa, conosciuto come “Abu Barra”. Pur mantenendo alcune cellule autonome in Cisgiordania, soprattutto nella città settentrionale di Jenin, dove collabora sia con le Brigate dei Martiri di al-Aqsa di Fatah che con le Brigate al-Quds della Jihad islamica, il suo centro di potere resta a Gaza. Qui, secondo le stime Usa, le brigate possono contare su un numero di combattenti compreso tra 10 e 40mila. Inoltre, dopo aver “inventato” i razzi Qassam che prendono nome proprio dall’organizzazione, negli ultimi anni hanno ulteriormente sviluppato le proprie capacità balistiche, sperimentando anche l’uso di droni artigianali e commando armati oltre confine, come mostrano i brutali attacchi dello scorso 7 ottobre. Tutto questo è stato possibile soprattutto grazie ai finanziamenti e agli appoggi ricevuti dall’estero, che hanno consentito al gruppo terroristico di bypassare il blocco di Gaza, imposto ininterrottamente da Israele a partire dal 2007 e oggi aggravato dal conflitto in corso, in violazione del diritto umanitario internazionale.
Nulla di tutto questo sarebbe stato possibile senza i contatti all’estero dei suoi leader, che dal 2020 operano soprattutto da Doha, in Qatar. In passato però, i vertici sono stati ospitati, in momenti storici diversi, anche in Libano, Siria ed Egitto. L’organizzazione poi può contare sul riconoscimento politico offerto dagli inizi degli anni Duemila dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan, dove Hamas riesce a ottenere anche i documenti necessari a spostare i suoi membri all’estero.
Ma Ankara è anche uno dei finanziatori più importanti della striscia, dove opera stabilmente l’Agenzia turca di cooperazione e coordinamento (Tika), che sostiene attività umanitarie a favore della popolazione impoverita. Il principale appoggio finanziario però arriva dall’emirato, che nel 2018 ha negoziato con Israele la possibilità di inviare pagamenti diretti nel territorio costiero per acquistare carburante per la centrale elettrica locale, pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici e fornire aiuti a decine di migliaia di famiglie povere. Non esistono statistiche ufficiali ma, secondo indiscrezioni di stampa, nel 2020 Doha avrebbe sborsato 240 milioni di dollari a questo scopo, una cifra aumentata nel 2021 a 360 milioni. Si tratta sempre, almeno ufficialmente, di versamenti a favore di nuclei familiari o per progetti di sviluppo infrastrutturale e non di finanziamenti diretti a Hamas.
Discorso diverso per l’Iran, uno dei maggiori benefattori del gruppo, a cui fornisce fondi, armi e addestramento. Secondo il dipartimento di Stato Usa, Teheran stanzia ogni anno quasi 100 milioni di dollari a favore di Hamas, della Jihad Islamica e di altre organizzazioni simili.
Fondi oltremodo necessari per un’organizzazione considerata terroristica da Usa e Unione europea e che non può accedere direttamente a finanziamenti né aiuti internazionali versati invece dalle istituzioni estere all’Olp in Cisgiordania. Per far fronte alla situazione, Hamas però sfrutta la tassazione dei beni che attraversano ogni giorno il valico di frontiera di Salah al-Din con l’Egitto. Da qui, sin dal 2021, Hamas ricaverebbe oltre 12 milioni di dollari al mese. Risorse che permettono di finanziare le numerose attività che guadagnano al gruppo i maggiori consensi.
Ancora popolari
L’ala politica del movimento mantiene infatti un elevato gradimento, almeno secondo gli ultimi sondaggi condotti nei territori occupati. Stando a uno studio compiuto nel giugno 2023 dal Palestinian Center for Policy and Survey Research (Pcpsr), in caso di voto, più della metà dei palestinesi – a Gaza come in Cisgiordania – sceglierebbe il leader di Hamas Haniyeh al posto dell’attuale presidente Abu Mazen.
Un altro sondaggio invece, condotto a luglio dal Washington Institute, ha rilevato come – malgrado le proteste dei giovani esplose proprio in quel mese contro il regime della striscia – il 52% degli abitanti della Cisgiordania esprima ancora un’opinione positiva di Hamas, un dato che sale al 57% a Gaza e addirittura al 64% a Gerusalemme Est. Sebbene la maggioranza dei palestinesi della striscia (62%) preferirebbe un cessate il fuoco con Israele e la metà di loro il riconoscimento da parte di Hamas di una soluzione permanente a due Stati basata sui confini del 1967, quasi tre quarti degli intervistati vede però di buon occhio anche gruppi terroristici come la Jihad Islamica e l’ultima arrivata Lions’ Den, nata nell’agosto 2022, mostrando come il problema principale resti ancora la rabbia di un popolo oppresso.