Alla radice del terrore: l’elezione che cambiò la striscia di Gaza per sempre
Nel 2006 Hamas sconfisse Fatah alle urne, Israele e l’Occidente non riconobbero i risultati e alla fine scoppiò la guerra civile palestinese. Da allora non si è più votato, il territorio costiero è sotto assedio e il gruppo terroristico è al potere. Ma ora Tel Aviv vuole farla pagare a tutti gli abitanti della striscia, dove metà della popolazione ha meno di 18 anni e quindi non ha mai votato per Haniyeh e il suo movimento
Ancora una volta il Grande Gioco mediorientale passa dal conflitto israelo-palestinese, ruotando nello specifico intorno al destino dell’organizzazione terroristica Hamas nella striscia di Gaza. Dopo la sanguinosa mattanza del 7 ottobre da parte delle falangi estremiste palestinesi, l’11 ottobre il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu si è finalmente deciso a mettere fine a questa convivenza scomoda impegnandosi a «distruggere Hamas ad ogni costo» – si tratta ovviamente di uno slogan riferito al braccio armato delle brigate Qassam, poiché la sua dirigenza politica è divisa tra Amman, Beirut e Doha. Ma quali sono le ragioni del successo politico di Hamas e come ha consolidato il suo potere in quella striscia “orfana” di terra su cui ora sono puntati i riflettori del mondo?
Nonostante il numero di vittime palestinesi in continuo aumento, secondo il ministero della Salute di Gaza sarebbero oltre 12mila i civili uccisi, di cui circa la metà bambini, il governo israeliano non sembra preoccuparsi troppo di distinguere tra civili e obiettivi militari e ha legittimato i cosiddetti “danni collaterali” della sua ritorsione equiparando, senza troppe velature, i suoi cittadini ai terroristi; come ha detto lo stesso presidente israeliano Isaac Herzog è «un’intera nazione là fuori a essere responsabile», rafforzando così la retorica (falsa) sui 2 milioni e 300mila gazawi consapevoli e coinvolti che «avrebbero potuto ribellarsi a questo regime malvagio». Anche il ministro della Difesa Yoav Gallant, dopo avere ordinato l’assedio totale della striscia, tagliando acqua, carburante ed elettricità, ha detto: «Stiamo combattendo contro delle bestie e agiremo di conseguenza», basandosi sull’assunto che alla «colpa collettiva» dei palestinesi deve necessariamente corrispondere una «punizione collettiva».
Voti contro
Una parte centrale di queste tesi nasce con gli avvenimenti del 2006, quando l’Autorità nazionale palestinese che operava in Cisgiordania e Gaza autorizzò le elezioni in tutti i territori per il rinnovo del Consiglio legislativo, in un clima elettorale infuocato da una serie tumultuosa di eventi: gli anni della seconda Intifada, la morte del longevo leader palestinese Yasser Arafat e il ritiro israeliano delle truppe e dagli insediamenti – 21 che ospitavano 9mila ebrei – dalla striscia nel 2005. Allora pochi osservatori si aspettavano che si sarebbe trattata dell’ultima votazione autorizzata dall’Anp, guidata all’epoca, come oggi, dal presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) e il risultato fu per molti scioccante. Hamas, che si presentava alle sue prime elezioni, era nato dopo il 1987 da una costola dei Fratelli Musulmani come organizzazione «caritatevole», e aveva gradualmente ampliato il proprio consenso in tutti i territori palestinesi, particolarmente in quelli più poveri della striscia, istituendo mense, ospedali e servizi.
Le elezioni si conclusero con una sorprendente vittoria di Hamas che ottenne 74 seggi con circa il 44-45% dei voti (440mila) contro Fatah che ottenne il 41-43% con 45 seggi. Come ha fatto notare Lara Friedman, presidente della Fondazione per la Pace in Medio Oriente, che promuove il riavvicinamento tra israeliani e palestinesi, in nessun distretto della striscia di Gaza Hamas aveva ottenuto la maggioranza dei voti. «Attualmente, i bambini costituiscono circa la metà della popolazione di Gaza, il che vuol dire che solo una frazione della popolazione attuale del territorio ha mai votato per Hamas». Peraltro, un exit poll di quelle elezioni segnalava che «tre quarti degli elettori palestinesi volevano che Hamas cambiasse la sua posizione su Israele e circa l’80% sosteneva un accordo di pace».
La motivazione principale del voto non era l’eliminazione di Israele, che aveva appena abbandonato l’exclave, ma la promessa fatta da Hamas, che si presentava con uno stile più ascetico rispetto a quello dell’Anp di Abbas – i dirigenti di Fatah vivono in case lussuose e si spostano in Mercedes, lo sceicco Ahmed Yassin, fondatore di Hamas, abitava in una baracca con il pavimento di terra e girava a piedi – di ripulire il Paese dalla corruzione e migliorarne la sicurezza interna. Come spiegato alla Cnn dal politico palestinese Mustafa Barghouti: «Per lo più hanno votato contro Fatah, contro la corruzione, contro il nepotismo, contro il fallimento del processo di pace e contro la mancanza di leadership». Allora un voto per Hamas era dunque un voto contro Fatah, più che contro Israele. A seguito delle elezioni scoppiò una violenta guerra civile tra Hamas e Fatah che si concluse con la presa di potere del movimento islamista sulla striscia mentre Fatah, attraverso l’Anp, conservò il controllo della Cisgiordania – tuttora occupata in parte da Israele. Da allora lo stato di tensione tra Hamas e le altre milizie arabo-palestinesi non si è mai interrotto.
Senza via d’uscita
Con la vittoria di Hamas la situazione per i palestinesi della Striscia si complicò. Israele decretò un embargo totale dell’enclave, con il controllo continuo dello spazio aereo e delle acque territoriali, e detenne numerosi funzionari di Hamas, tra cui alcuni legislatori eletti. Le potenze occidentali interruppero temporaneamente il flusso di aiuti all’Autorità Palestinese e l’economia palestinese sprofondò. Ciò che è seguito è il tragico corso degli ultimi dieci anni, con la crisi dell’Anp, le condizioni di assedio poste da Israele sull’intera striscia di Gaza e le eruzioni di violenza mortale da parte di Hamas e di altre fazioni armate nel territorio, ricordando al mondo intero la minaccia perenne che rappresentano e il prezzo sproporzionato pagato dalla popolazione civile di Gaza. Con il benestare degli Stati Uniti e di Israele, il Qatar fornisce un sostegno economico aiutando le autorità di Gaza a coprire spese come l’infrastruttura e gli stipendi dei funzionari pubblici. Nel frattempo, attraverso mezzi più occulti e illeciti, Hamas riceve da anni aiuti e supporto dall’Iran per potenziare le sue capacità militari.
Alla luce degli eventi del 7 ottobre, ancora meno governi tratteranno Hamas come un attore politico normale. Tuttavia, negli anni precedenti la guerra attuale, i palestinesi a Gaza avevano preoccupazioni più immediate rispetto a trovare i mezzi per allontanare la fazione armata che si era insediata tra la popolazione. Come ha scritto Jonah Shepp sull’Intelligencer: «Molti gazawi preferirebbero non essere governati dai militanti di Hamas, ma semplicemente non possono avviare una campagna per liberarsene, non senza gravi rischi per la loro vita, il loro sostentamento e le loro famiglie. Sono troppo occupati a lottare per sopravvivere giorno dopo giorno. Hamas consolida il suo controllo sul potere attraverso un ruolo eccessivo nell’economia di Gaza: è l’unica organizzazione in grado di pagare regolarmente gli stipendi, ha un controllo stretto sugli aiuti esteri e mantiene la dipendenza di Gaza da Israele per l’acqua e l’elettricità, preferendo costruire razzi invece di infrastrutture».
Altri analisti suggeriscono che il momento potrebbe richiedere una maggiore riflessione anche all’interno di Israele. I militanti di Hamas «sono degli incendiari, e dobbiamo ricordare che gli incendiari cercano un mondo in cui tutto brucia», ha scritto Ben Rhodes, un ex funzionario dell’amministrazione Obama. Nel frattempo, la politica a lungo termine del premier israeliano Benjamin Netanyahu di assediare Gaza, espandere gli insediamenti in Cisgiordania e concludere accordi con autocrati arabi non ha garantito la sicurezza, ma ha portato Israele ad abbassare la guardia mentre Hamas progettava il suo attacco in nome della Resistenza palestinese, che sarà molto difficile da distruggere.