Guerre, inflazione, crisi climatiche e corsa alle materie prime: il disordine globale continuerà anche nel 2024
Ecco come i mutati rapporti di forza fra le grandi potenze rischiano di influenzare i prezzi, gli scambi e la sicurezza internazionale il prossimo anno
Il 2024 non promette stabilità, anzi. Probabilmente il Medio Oriente resterà una polveriera; il conflitto in Ucraina si protrarrà, proseguendo il suo stallo; la corsa globale alle materie prime, in particolare quelle energetiche, premerà ancora di più sui prezzi internazionali; mentre la crisi climatica continuerà a farsi sentire. L’unico fattore di continuità sembra la volatilità dei prezzi e l’incapacità dei Paesi europei di trovare una propria visione strategica autonoma. Ma se l’insicurezza generale e la mancanza di coraggio a Bruxelles non sono una novità, l’anno prossimo il mondo potrebbe somigliare ancora meno a quello che abbiamo conosciuto finora, con geometrie internazionali variabili alla mercé degli interessi delle superpotenze, Usa e Cina in primis, e tutti gli altri a rimorchio.
«Ci stiamo muovendo verso una ri-polarizzazione a livello globale», ci spiega Claudio Bertolotti, direttore di Start Insight nonché docente e ricercatore associato dell’Ispi. «Con un nuovo polo (i Brics allargati) che vede la Cina in prima fila guardare al cosiddetto “Sud globale”, che potrà rappresentare o un felice partner dell’Occidente o un suo competitor, non ovviamente in senso conflittuale, ma in termini di competizione commerciale, economica e finanziaria». Una prospettiva che potrebbe rivelarsi poco felice per noi europei. «L’Europa si trova schiacciata tra due realtà: quella americana, che con un presidente democratico alla Casa Bianca vuol dire comunque un certo tipo di tutela dell’ordine liberale globale, e quella cinese», ci ricorda invece Francesco Sassi, ricercatore del RIE. «Anche se le elezioni previste nel 2024 sia nell’Unione europea che negli Stati Uniti potrebbero nuovamente cambiare questi equilibri, l’Europa resta un partner capace solo di reagire e che non riesce a prendere un’iniziativa vera e propria dal punto di vista strategico». Ma andiamo per gradi.
La polveriera mediorientale
Malgrado gli annunci e le prospettive di tregua, il fronte più caldo – quello in Medio Oriente – potrebbe restare tale. Quando a inizio dicembre incontrammo l’ambasciatore israeliano in Italia, Alon Bar, ci disse che Tel Aviv non può permettersi di tornare alla situazione del 6 ottobre con Hamas asserragliata a Gaza e Hezbollah armata fino ai denti in Libano. In quasi tre mesi di conflitto, oltre ai massacri di civili e ai bombardamenti sulla Striscia, agli scontri in Cisgiordania e allo scambio di colpi nel Sud del Libano, abbiamo assistito a raid israeliani e statunitensi in Siria contro il regime di Damasco e i suoi alleati filo-iraniani, ad attacchi agli interessi statunitensi in Iraq da parte di milizie alleate di Teheran e a lanci di razzi dai ribelli huthi in Yemen verso Israele, che rischiano di bloccare il traffico navale nel Mar Rosso. Come dire che il conflitto in Medio Oriente si è già allargato, almeno geograficamente. «Ma lo scenario peggiore, il coinvolgimento diretto dell’Iran, non c’è ancora stato», commenta Bertolotti. «L’obiettivo di Israele è stritolare Hamas, sconfiggendolo militarmente a Gaza, il che potrebbe richiedere qualche altro mese. Parallelamente però lo Stato ebraico ha attivato tutti gli strumenti per distruggere i suoi vertici al di fuori della Striscia: da qui a qualche anno potremmo aspettarci una serie di eventi che porteranno all’eliminazione fisica di quelli che oggi sono i leader di alto e medio livello dell’organizzazione».
Discorso diverso invece per Hezbollah, il che potrebbe ridurre i rischi di escalation con il Libano. «È il più grande esercito di fanteria a livello regionale con un’esperienza di guerra significativa, avendo combattuto in Siria dal 2013. Ma ha una capacità militare limitata e le sue azioni per il momento sono state più che altro di disturbo», aggiunge il direttore di Start Insight. «Hezbollah è e sarà un soggetto che avrà lunga vita perché è parte integrante dello Stato e della società libanesi e l’ultima cosa che il Paese vuole fare è entrare in guerra con Israele perché un coinvolgimento diretto di Beirut porterebbe di fatto al sostanziale collasso nazionale».
Neanche gli huthi dovrebbero preoccupare più di tanto, almeno non sul lungo termine. «Il loro attivismo e la minaccia di chiudere i traffici commerciali nel Mar Rosso attraverso il Canale di Suez non può essere un obiettivo di lungo periodo per Teheran, anche perché in quel caso le pressioni sul loro sponsor – l’Iran – aumenterebbero sia da parte occidentale che cinese», prosegue il ricercatore dell’Ispi. «Guardando ai numeri, è evidente che hanno già operato una selezione colpendo prevalentemente navigli e interessi dell’Occidente. Ma un vero blocco dell’area inciderebbe invece su chi sfrutta Suez e il Mar Rosso per esportare prodotti verso l’Europa».
L’Europa su due fronti
Proprio il Vecchio continente rischia invece di ritrovarsi circondato da un arco di instabilità che arriva fino al Polo Nord. Un possibile cambio di leadership alla Casa bianca e nuovi equilibri politici nell’Ue potrebbero ridurre l’appoggio occidentale all’Ucraina aggredita ormai 22 mesi fa dalla Russia ma non risolverà il conflitto né ridurrà le tensioni tra l’Europa e Mosca che, con l’ingresso della Finlandia e quello atteso della Svezia nella Nato, vede profilarsi all’orizzonte anche un’altra sfida, stavolta nell’Artico. «Il campo di battaglia ucraino ci consegna di fatto un risultato simile a quello dell’anno scorso, senza però le premesse – rivelatesi fin troppo ottimistiche – di una controffensiva di Kiev che, come dicevo già un anno fa, non solo non sarebbe stata efficace ma ha progressivamente privato il Paese delle risorse militari utili a una difesa attiva contro la Russia, risorse che invece sono andate sprecate», ci spiega Bertolotti. «Ci siamo fossilizzati in una guerra di logoramento e attrito dove sul lungo periodo la Russia resta significativamente avvantaggiata perché il rapporto quantitativo delle risorse militari russe supera la disponibilità qualitativa dell’Ucraina, dipendente dalle forniture occidentali. Basta guardare alla storia: Mosca ha combattuto per dieci anni in Cecenia e quindi possiede la capacità, la volontà e la predisposizione mentale per condurre una guerra a media intensità, com’è quella in Ucraina, anche per un lungo periodo».
Uno scenario che in realtà, comunque vada a finire, non cambierà neanche con le marginali elezioni del Parlamento europeo e le ben più importanti presidenziali statunitensi. «Se al principio l’Ue ha mostrato grande coesione, da tempo assistiamo a uno sfaldamento tra i più solidi promotori del supporto incondizionato all’Ucraina. Tuttavia, malgrado le risorse economiche e militari messe a disposizione di Kiev, Bruxelles resta un comprimario in questa guerra», prosegue l’esperto. «A dicembre il Congresso Usa ha congelato 60 miliardi di aiuti militari a Zelensky, mostrando come non siano solo i repubblicani a non essere più propensi ad aiutare il Paese ma anche una parte dei democratici. Mentre a Washington cresce il fronte degli scettici, per resistere al fronte o creare una nuova capacità militare ai fini di una possibile controffensiva l’Ucraina avrà bisogno di un ulteriore sostegno». Aiuti che in questo scenario, a prescindere se Trump tornerà o meno alla Casa bianca, difficilmente arriveranno. Anche perché gli Usa hanno una visione più ampia.
«Gli Stati Uniti rispondono a una visione strategica di tipo globale. L’aggressività russa e la progressiva vicinanza, al limite della subordinazione, di Mosca alla Cina hanno fatto aumentare i timori relativi allo sfruttamento delle rotte artiche che saranno sempre più battute e accessibili, anche a causa dei cambiamenti climatici e che di fatto sposteranno buona parte dei traffici commerciali a Nord», sottolinea il docente dell’Ispi. «Gli scambi che transiteranno attraverso i porti russi partiranno in buona parte proprio dalla Cina. Ma tutto ciò che riguarda il commercio si sposa con la necessità di garantire lo sfruttamento in sicurezza delle rotte che consentono gli scambi e qui Russia, Cina, Stati Uniti e ovviamente anche l’Europa hanno i propri interessi». Non a caso, con l’adesione di Helsinki e Stoccolma all’Alleanza atlantica, sette su otto membri del Consiglio artico (esclusa solo la Russia) sono membri della Nato. «Ma l’Europa non ha una visione unitaria e non ha una capacità di proiezione militare», rimarca Bertolotti. E dal punto di vista della sicurezza energetica non va meglio.
L’era del petrolio non è finita
Un’altra “guerra” rischia infatti di profilarsi all’orizzonte e riguarda la corsa alle materie prime necessarie per la transizione energetica. Gli incentivi approvati negli Usa e nell’Ue, consentendo una maggiore concorrenza con la Cina, hanno già creato tensioni tra le due sponde dell’Atlantico. «L’Europa si è trovata a reagire a un’iniziativa di altri ovvero quella americana, che però non era certo diretta contro l’Ue ma verso la Cina», ci spiega Francesco Sassi. «L’Europa è un partner che reagisce e non riesce a prendere un’iniziativa vera e propria dal punto di vista strategico: lo fa stretta nella competizione tra due giganti, uno dei quali – la Cina – ha una marcia in più rispetto a tutti in termini di produzione, supply chain e installazione delle rinnovabili».
Se tale competizione dovesse trasformarsi in una guerra commerciale tra i principali consumatori mondiali (per lo più europei e nordamericani) e il Paese che controlla la lavorazione e molte materie prime (la Cina), questo potrebbe tradursi in prezzi più alti e nuova inflazione, che andrebbero ad aggravare le già poco rosee prospettive economiche. «Non siamo più nella situazione post-pandemica di crescita generalizzata della domanda, oggi l’Occidente veleggia tra lo stallo e la decrescita», rimarca il ricercatore del RIE. «I prezzi energetici infatti stanno calando, tornando più vicini alla media storica dei dieci anni precedenti l’inizio della crisi». Ma non è una buona notizia.
«I mercati sono ancora suscettibili sia alla volatilità dei prezzi che alle questioni geopolitiche», aggiunge Sassi. «Al minimo accenno di uno scossone da una parte o dall’altra reagiscono in maniera immediata: lo abbiamo visto con la guerra tra Israele e Hamas e l’impennata dei prezzi, soprattutto di gas naturale, nel giro di pochissimi giorni».
Ma non solo. «Anche i corsi del petrolio sono diventati estremamente volatili e lo sono perché da una parte ci sono delle spinte macroeconomiche che segnano un evidente rallentamento della crescita in Cina e nelle economie europee e dall’altra a causa delle continue tensioni internazionali che non smettono di ripercuotersi sulla stabilità dei mercati».
Una dinamica estesa anche ad altri materiali. «La stessa cosa sta succedendo sui prezzi e sui mercati delle materie prime critiche, che sono calati enormemente rispetto anche solo a un anno fa», prosegue l’esperto. Nemmeno questo però è uno sviluppo positivo. «Questo rende più difficile per i Paesi occidentali investire in nuova produzione laddove i guadagni sono molto minori ma c’è una spinta politica importante per sganciarsi dalla dipendenza dalla Cina. Quindi il rischio è che queste produzioni debbano essere finanziate quasi esclusivamente con denari pubblici perché altrimenti non sarebbero economicamente sostenibili sul mercato». Se non mettendo a rischio, sicuramente aumentando i costi della transizione. Anche perché l’era del petrolio non è di certo finita, come mostra la visita di Vladimir Putin in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti, che hanno anche ospitato la Cop28 sul clima.
Ma tira un brutto clima
«Insieme, Putin, i sauditi e gli Emirati hanno dato un segnale forte di unità di intenti che unisce le monarchie del Golfo con gli interessi della Federazione Russa. Un asse politico che difficilmente si scioglierà nel breve termine», ci spiega il ricercatore. «È impossibile prevedere come sarà il mercato ma l’unica certezza è la sua volatilità, che ormai dipende più dalla politica che dalle vicende dei mercati internazionali». Così diventa importante seguire i vari dossier, tutti diversi, dal Venezuela, all’Iran, agli sviluppi della guerra in Ucraina e in Medio Oriente, che però in comune hanno la capacità di spostare gli equilibri, influenzando i prezzi. Anche qui, come dal punto di vista militare, l’Europa rischia di fare la fine del vaso di coccio.
Probabilmente nel 2024 l’Ucraina non rinnoverà l’accordo per il transito di gas russo sul proprio territorio, mentre l’Ue manterrà le sanzioni contro Mosca e continuerà a perseguire l’indipendenza dalle esportazioni russe affidandosi ad altri fornitori come Algeria, Azerbaigian e Qatar. Ma il Cremlino ha un piano B.
«La Russia ha intenzione di trovare nuovi modi per diversificare a propria volta le esportazioni anche verso l’Unione europea. Soprattutto attraverso il gas naturale liquefatto, di cui noi siamo diventati ghiotti acquirenti. Mosca è il secondo fornitore dell’Ue di Gnl, dopo ovviamente gli Stati Uniti», osserva il ricercatore del RIE. «La strategia di diversificazione quindi continua ma non viaggia alla velocità predetta sia dal Governo Draghi che da quello Meloni». Senza contare che Putin ha anche un’altra leva in mano: quella dell’uranio, il principale combustibile delle centrali nucleari.
«Sia gli Stati Uniti che altre potenze sono assolutamente dipendenti dai cicli di combustibili atomici russi. Non a caso gli Usa, il Paese che più ne beneficia al mondo, hanno deciso di non sanzionare questo tipo di importazioni perché altrimenti avrebbero subito immediatamente il colpo», ricorda Sassi, secondo cui anche in questo mercato i corsi sono in rialzo. «I prezzi dell’uranio cosiddetto “Yellow cake” sono alle stelle e non sono mai stati così alti negli ultimi 16 anni, anche perché molti Stati guardano al nucleare per accelerare la transizione ecologica, soprattutto quelli che già hanno delle centrali sul proprio territorio. Ora potrebbe aprirsi un nuovo ciclo di rialzi, partendo da prezzi già molto alti, di cui ovviamente la Russia potrà approfittare». Altro che indipendenza energetica.
Intanto però la crisi climatica non ci darà tregua: secondo il servizio meteorologico britannico, quest’anno è stato quasi certamente il più caldo mai registrato e il 2024 potrebbe esserlo ancora di più. Il Met Office britannico prevede infatti che l’anno prossimo la temperatura media globale sarà compresa tra 1,34°C e 1,58°C al di sopra della media del periodo preindustriale compreso tra il 1850 e il 1900. Una situazione che potrebbe alimentare ancora di più i flussi migratori: secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Oim), entro il 2050 potremmo contare tra i 44 e i 216 milioni di migranti per motivi climatici. Auguri.