Yemen: le bombe made in Italy che uccidono i civili. L’inchiesta di TPI svela il business di armi tra Arabia Saudita e Italia
Guerra Yemen bombe italiane
Esclusivo TPI – Le bombe che stanno uccidendo migliaia di civili nella guerra in Yemen sono anche italiane. E le navi saudite che caricano armamenti militari utilizzano anche porti italiani. Un commercio di armi da miliardi di euro. L’inchiesta di TPI svela le prove dell’implicazione dell’Italia nell’atroce conflitto yemenita.
La nave delle armi a Genova – La nave Bahri Yanbu, cargo saudita carico di materiale militare, è ripartita dal porto di Genova il 21 maggio, in direzione Alessandria d’Egitto. I portuali hanno bloccato il carico di tre semirimorchi che trasportavano due generatori elettrici utilizzabili per scopi militari dell’azienda Teknel, società con sede a Roma, che nel 2018 ha ricevuto l’autorizzazione ad esportare questo tipo di prodotto in Arabia Saudita per una fornitura di 7,829 milioni di euro.
Attualmente il materiale si trova in una zona sorvegliata del porto in attesa di accertamenti da parte delle autorità (qui la relazione parlamentare sulle spese di fornitura).
Guerra Yemen bombe italiane | Le navi saudite
Le navi saudite in Italia – Non è però la prima volta che una nave della compagnia saudita Bahri attracca a Genova. Il primo luglio del 2014 era stata fermata in porto dalla polizia di frontiera, perché possedeva le bolle di accompagnamento per il carico di armamenti trasportato.
A giugno 2016 un’altra nave gemella, la Bahri Jeddah aveva imbarcato al porto di Cagliari materiale proveniente dalla fabbrica di bombe RWM e nello stesso porto, a marzo 2017, la Bahri Tabuk, era stata “sorpresa” durante operazioni di carico di container provenienti dall’azienda d’armamenti sarda.
Le quote della compagnia Bahri – La compagnia saudita Bahri viene costituita nel 1975, con una quota del 28 per cento detenuta dal fondo di investimento pubblico saudita e un ulteriore 20 per cento dalla Saudi Aramco Development Company (SADCO), una sussidiaria della compagnia petrolifera Saudi Arabian Oil Company, mentre le rimanenti azioni sono quotate alla borsa di Riyadh (Tadawul).
La compagnia di navigazione possiede attualmente 92 navi, tra queste anche 6 traghetti RoRo Cargo (per il trasporto di veicoli su gomma) che fanno spesso la spola tra Stati Uniti ed Arabia Saudita. Nel suo ultimo viaggio la Bhari Yanbu ha infatti toccato porti americani come Houston, Wilmington, Baltimora e Sunny Point prima di fare rotta verso l’Europa. Il coinvolgimento degli Stati Uniti in questo commercio, non lascia certo sorpresi se si pensa che nel 2018 il principe ereditario saudita Bin Salman e il presidente Trump avevano stabilito un accordo per una fornitura di armi da 110 miliardi di dollari.
La complicità dell’Italia – Ma anche l’Italia sembra fare la sua parte, nonostante sia calato a 13 milioni di euro il valore complessivo delle nuove autorizzazioni rilasciate nel 2018 verso l’Arabia Saudita, nello scorso anno le esportazioni effettive relative a precedenti commesse si stimano intorno ai 108 milioni. Il governo saudita ha iniziato a marzo 2015 una guerra a colpi di bombardamenti contro i ribelli sciiti Houthi. Ma le vittime di questo conflitto sono soprattutto i civili.
Guerra Yemen bombe italiane | I civili colpiti
Quelle armi uccidono i civili – I sauditi colpiscono non di rado obiettivi civili: scuolabus, ospedali, villaggi. A quattro anni dall’inizio del conflitto, in Yemen è in atto la più grave crisi umanitaria al mondo. Secondo gli ultimi dati Oxfam, 24,1 milioni di abitanti su 28,5 dipendono dagli aiuti umanitari per sopravvivere, le vittime civili sono oltre 17.000 ed è scoppiata un’epidemia di colera che ha già contagiato 1,3 milioni di yemeniti.
Made in Italy – A ottobre 2016, nel villaggio di Deir al-Hajari, nello Yemen nord occidentale, sono stati ritrovati frammenti di una bomba dopo una attacco saudita che aveva tolto la vita a una famiglia di sei persone. I frammenti appartenevano ad una bomba MK 84 fabbricata dall’azienda RWM di Domusnovas, in provincia di Cagliari. L’Italia infatti non si limita solo ad aprire i porti alle navi saudite cariche di armi ma ospita in Sardegna anche un’azienda che produce bombe destinate al conflitto in Yemen.
La produzione RWM – Proprietaria al 100 per cento della RWM (Rheinmetall Waffen und Munition) è l’azienda di armamenti tedesca Rheinmetall. Oltre all’Italia e alla Germania, però, in questo traffico sono coinvolti l’Inghilterra e gli Stati Uniti. Il 29 novembre 2012 viene stipulato un contratto tra la RWM Italia e la Raytheon Systems inglese, filiale del colosso americano degli armamenti Raytheon, per una fornitura di 63,2 milioni di euro. Nel documento si fa riferimento al contratto madre tra la Raytheon e il ministero della Difesa saudita.
La partnership con Raytheon – La fornitura è spalmata nell’arco di 57 mesi con scadenza a giugno 2017. La partnership con Raytheon è stata ribadita dalla stessa Rheinmetall durante l’ultima assemblea degli azionisti del maggio 2018. La filiale inglese produce infatti il dispositivo Paveway IV tactical Penetrator necessario a rendere le bombe MK precise nell’abbattimento dell’obiettivo.
Tra 2016 e 2017 le autorizzazioni concesse alla RWM per l’esportazione verso l’Arabia Saudita ammontavano a oltre 460 milioni di euro di materiale e, secondo i dati più recenti del Mef, anche nel 2018 l’importo delle transazioni dell’azienda verso l’Arabia si aggira intorno ai 29 milioni.
La fabbrica RWM riesce a produrre all’incirca 50 milioni di bombe l’anno e potrebbe triplicare la produzione una volta terminato l’ampliamento della fabbrica. La creazione di due nuovi reparti produttivi è stata autorizzata a novembre scorso dal comune di Iglesias dove dovrebbero sorgere i nuovi siti e attualmente contro il progetto è stato presentato un ricorso al Tar da parte di associazioni, sindacati e attivisti.
Guerra Yemen bombe italiane | Export
Esportazione di armi senza regole – Il blocco dell’export all’Arabia in Italia resta ancora tabù. Il sottosegretario agli Esteri, Guglielmo Picchi, della Lega, non sembra troppo sensibile al tema, mentre qualche apertura in più è arrivata dai Cinque Stelle.
Il pentastellato sottosegretario agli Esteri, Manlio Di Stefano, ha più volte ribadito la necessità di una modifica della Legge 185 del 1990 che regolamenta l’esportazione degli armamenti e il senatore Gianluca Ferrara dei Cinque Stelle ha depositato a febbraio scorso un disegno di legge volto a “migliorare” la 185.
Nel testo si chiede la reintroduzione del Cisd, il Comitato interministeriale per gli scambi di materiale d’armamento della difesa, con sede presso la Presidenza del consiglio dei ministri che fino al 1993 rendeva possibile ai diversi ministeri coinvolti una definizione comune delle linee generali della politica estera.
Attualmente invece le autorizzazioni all’esportazione sono rilasciate dall’ente tecnico Uama (Unità per le autorizzazioni del materiale d’armamento) sotto il controllo esclusivo del Ministero degli Esteri. La strada intrapresa dai 5 Stelle però prevede un iter legislativo che potrebbe durare anni e che nell’immediato non offre una soluzione chiara.
Doppia ipocrisia – Secondo l’analista Maurizio Simoncelli, dell’Istituto di ricerche internazionali archivio disarmo (Iriad), si tratta di un modo di temporeggiare perché un intervento politico sarebbe invece già possibile: “In seguito all’invasione del Kuwait e alla conseguente guerra del Golfo navi militari della Fincantieri già pagate e destinate a Saddam Hussein furono bloccate, senza bisogno di decreti legge o altro.
Le norme della 185/90 e quelle del Trattato Onu sul commercio delle Armi (comma 7 art. 7), ratificato dall’Italia, permettono di bloccare i contratti già in essere alla luce di informazioni sull’utilizzo di materiale bellico che viola i diritti umani. Il governo può adottare tutti gli strumenti che vuole, compresi i decreti legge”.
E, invece, le bombe italiane continuano ad essere sganciate in Yemen.