Reportage TPI – Dietro le linee nemiche: la guerra vista da Mosca
Le vetrine dei negozi “occidentali” sono chiuse, i prezzi salgono e ovunque spuntano cantieri. Nella capitale russa la vita quotidiana appare quella di sempre ma la città è più vuota, il turismo è fermo e nelle strade si respirano diffidenza e paura. Il reportage dell’inviata di TPI in Russia
Se i mondiali di calcio del 2018 avevano fatto di Mosca la vetrina di una Russia all’avanguardia e accogliente verso i visitatori di tutto il mondo, quella in cui ci si imbatte oggi ha poco a che fare con la visione di allora. Tutto, nella capitale imperiale, è diviso in un dissonante dualismo: da un lato lo sfarzo architettonico e compositivo della prima porta d’Oriente si aggrappa al suo passato glorioso e lo modernizza, in perfetto stile occidentale. Ma deve fare i conti con una metropoli più vuota, in cui le grandi vetrine dell’ovest sono state frettolosamente chiuse, abbandonate o ribattezzate. È il caso di McDonald’s, diventato dopo l’abbandono della grande catena statunitense “Vkusno e tochka”: il nuovo fast-food nazionale. Dall’altro si avverte il bisogno di tacere quanto basta l’attuale conflitto in corso, rinominato, di volta in volta dalla propaganda del potere, “operazione speciale” o “denazificazione”. Di tacerlo, sì, ma anche di giustificarlo. Ecco allora che la memoria collettiva viene indirizzata in modo sapiente e non invasivo verso il ricordo della grande Russia sovietica, nel tentativo, a distanza di un trentennio, di suscitarne nostalgia.
Nell’aeroporto internazionale di Sheremetyevo sono molti, fin troppi, gli aerei a terra della compagnia di bandiera Aeroflot.
Sono pochi, oggi, i modi per raggiungere la Federazione Russa dall’Europa. C’è il passaggio tramite la Serbia, oppure attraverso la Turchia, dove da Istanbul partono i voli diretti per Mosca.
La nuova rotta da Istanbul prevede un tempo di percorrenza di oltre 5 ore (prima della guerra la stessa distanza si copriva in meno di 3) e costringe i velivoli russi ad oltrepassare a oriente la città di Astrakhan. Dopo aver sorvolato tutto il Mar Nero, sfiorato il massiccio georgiano all’altezza di Sochi e oltrepassato gran parte del Mar Caspio, si punta a nord verso Samara e con una decisa virata a ovest ci si prepara a ricoprire gli oltre mille chilometri precedentemente percorsi in direzione opposta: scelta obbligata per allontanarsi il più possibile dai cieli divenuti area militare a ridosso dell’Ucraina. Per intenderci, sarebbe come passare da Varsavia se si volesse andare da Palermo a Londra.
Già qui, nei primi passi che si percorrono sul suolo russo, qualcosa sembra stonare. Dopo un ingresso trionfale che porta dal terminal al cuore dell’aeroporto internazionale, lungo i cui corridoi campeggiano enormi stampe, memoir della grande aviazione sovietica, si affronta la prima tappa obbligata di ogni viaggio nel vero estero: il controllo passaporti. Nonostante l’estate rappresenti una stagione buona per il turismo, a Sheremetyevo non si incontrano viaggiatori con indosso grandi cappelli panama, occhiali da sole, borse di paglia o macchine fotografiche: in fila, ad attendere il proprio turno nelle serpentine sottostanti la grande insegna “All Passports” ci sono persone che non parlano lingue europee e hanno tutta l’aria di chi sta arrivando in Russia non per vacanza. I tratti somatici fanno pensare a quelli tipici di chi proviene dalle ex repubbliche sovietiche, come Kazakistan, Uzbekistan o Azerbaigian, i territori-culla della grande manodopera russa: popolazioni ancora molto legate, in termini di retribuzioni, alla ex madre Urss.
Ci vuole più tempo del solito perché la Polizia di Frontiera controlli la validità e congruità del mio visto turistico: una rarità di questi tempi. «Quanti contanti hai con te?», chiede un uomo in divisa subito dopo i tornelli di frontiera. È la prima volta che mi viene rivolta questa domanda all’ingresso in Russia e il motivo è chiaro: la mia carta di credito non funzionerà a causa delle sanzioni. «Solo euro? Niente dollari?». Non so quale sarebbe stata la domanda successiva se avessi avuto in tasca del cartaceo statunitense, resta il fatto che la mia valigia è stata controllata un paio di volte nel giro di pochi minuti: una prima manifestazione muscolare della nuova Russia offensiva.
È così che si auto-definisce Mosca: la terza Roma. Il motivo appare chiaro fin da subito. Mosca è una città in cui alloggia il potere, lo perpetua nei suoi immensamente eleganti palazzi ottocenteschi così bene mantenuti. La Piazza Rossa, alla quale si accede attraverso la maestosa ulitza Tverskaya, non ha un ciottolo fuori posto. È bella da togliere il fiato. I colori delle cupole di San Basilio, il rosso scuro delle mura del Cremlino, quel palazzo fiabesco che è il museo storico di Stato si intonano perfettamente con il cielo terso e tiepido dell’estate. C’è gente in giro, sì, ma non troppa. La lingua principale che si sente parlare lungo le vie del centro è sempre la stessa: il russo. Non ci sono forestieri, non come sarebbe solito per questo periodo. Nei dintorni della Piazza Rossa ci sono stand e bancarelle, come se fosse un’estate qualunque. Questi piccoli mercatini avvolgono il centro in un tempo sospeso, lontano da ciò che accade lungo il confine. Sono il pretesto perfettamente escogitato per convincere i residenti che non c’è nulla da temere e che la vita di Mosca è quella di sempre.
Le linee delle metro vengono continuamente potenziate, i treni sono nuovi e super accessoriati, ovunque troneggiano grandi gru che ergono grattacieli e palazzine a velocità tripla rispetto ai nostri standard.
Il verde, poi, non manca. Mosca è una città piena di giganteschi parchi pubblici tenuti come se fossero giardini imperiali: aiuole fiorite, erba verdissima e una modernizzazione, in corso proprio in queste settimane, di molte delle aree attrezzate per i più piccoli o per la ginnastica all’aperto. I boulevard fioriti attorno al primo anello dei viali del centro sono un fiore all’occhiello per la capitale, così come Moscow-city, il cuore ultramoderno e mastodontico del commercio internazionale russo.
Mosca ha un dritto: è la sua bellezza così poco convenzionale per il nostro occhio europeo. Le forme neoclassiche si armonizzano con quelle dell’ortodossia bizantina e aprono a un immaginario acerbamente orientale. Ma è anche Occidente, nei suoi vertiginosi grattacieli di vetro e nel suo senso dell’ordine. La capitale però ha un rovescio.
L’estate invoglia i moscoviti a muoversi verso la “dacia”, la tipica residenza estiva a diverse decine di chilometri da Mosca. Lì i boschi, ammaestrati a fatica in città, dominano gli spazi aperti e le strade sono lunghe direttrici che porzionano zone residenziali immerse nel verde.
È spostandosi verso queste periferie che emerge più viva la lotta intestina della Russia in guerra. Visibili dalle cabine dei treni e dai finestrini delle auto, si ergono giganti cartelloni pubblicitari (quasi banditi in centro città) che ritraggono giovani sorridenti nella loro divisa militare. «Viva i nostri eroi» è scritto a chiare lettere su questi billboards in cui troneggia la bandiera nazionale.
«No alla guerra», rispondono i graffiti incisi a bomboletta sulle cinte murarie delle stazioni ferroviarie fuori Mosca. È in posti come questi che si leggono avvertimenti volti a disincentivare il reclutamento: «Chiamata alle armi – addio alla sposa», oppure «Vovan hai rotto», dove Vovan è il soprannome russo per Vladimir. E un po’ ovunque spuntano disegni stilizzati di bare seguiti dalla scritta: «L’uomo di casa è tornato».
Non è facile opporsi alle scelte del governo che trascina a sé così tanto tacito assenso. Nelle case private se ne parla poco, laconicamente, per evitare conflitti tra familiari, vicini o amici. Mi è capitato di assistere a una di queste discussioni, durante un pomeriggio trascorso nella dacia di alcuni amici. Il baratro generazionale delle rispettive posizioni è evidente: i più attempati sono tendenzialmente d’accordo con la necessità di portare avanti la cosiddetta “operazione speciale”: se lo scontro esiste è perché deve esistere. I giovani, bruscamente spezzati da una guerra che ha tolto loro slancio professionale e avvenire globalizzato, sono impotenti e soggiogati.
«Una sera dal balcone ho notato un ragazzo che attaccava manifesti sui muri di un edificio. Ero lontana e non riuscivo a distinguere cosa ci fosse scritto. La mattina dopo sono passata davanti a quello stesso edificio: i cartelloni però non c’erano più, erano già stati rimossi. Evidentemente, sostenevano posizioni scomode al regime». Questo lo racconta una ragazza di Mosca che lavora per una importante organizzazione culturale (motivo per cui sceglie l’anonimato), oggi sull’orlo del fallimento a causa dell’imbarazzante posizione internazionale nella quale si è ritrovata dopo lo scorso 24 febbraio. «La nostra attività è stata drasticamente compromessa a causa della guerra. La nostra organizzazione è stata indirettamente associata al governo russo, poiché comprende anche imprenditori vicini al potere. Questo, oltre al fatto che la direzione non ha sottoscritto nessuna dichiarazione ufficiale che denunciasse il conflitto, ma nemmeno che lo appoggiasse, ha stimolato nell’opinione pubblica l’idea di un nostro sostegno alla guerra. Avevamo pianificato da tempo il programma espositivo, ma abbiamo capito che non saremmo stati in grado di svolgerlo così come l’avevamo pensato. C’era un tema, quello del colonialismo, che non poteva più essere discusso vista la situazione politica, specialmente in forma artistica. Per lo stesso motivo, sono sfumate la maggior parte delle opportunità di collaborazione con artisti stranieri».
Non tutti i giovani sono stati in grado di restare. Katya ha deciso assieme al suo partner di trasferirsi in Armenia poco dopo l’inizio del conflitto. «Non è stato facile lasciare Mosca, è casa nostra. Ma questa invasione ci ha fatto sentire stranieri nella nostra stessa patria. In più, avevo paura che l’esercito potesse chiamare il mio ragazzo per arruolarlo e per noi questa guerra è totalmente sbagliata. Così, senza pensarci troppo, siamo andati via». Dover scegliere un posto in cui ricominciare da capo non è facile per nessuno, a maggior ragione se il motivo del proprio spostamento viene avvertito come un’imposizione dall’alto, un’inevitabile opzione.
Mila si è trasferita nei Paesi Bassi quattro anni fa, abita a Utrecht con il suo ragazzo, Arnie. Ha trovato lavoro soltanto qualche settimana fa: parla correntemente quattro lingue, ha una laurea specialistica in Storia dell’arte e ha lavorato in uno dei principali musei d’arte contemporanea in Russia. La vita, per lei, era già difficile. «All’inizio della guerra non osavo parlare al telefono in russo sul treno o, per esempio, in strada. Mi sembrava che tutti intorno a me conoscessero la mia nazionalità e mi guardassero».
Mila racconta che non è stato facile assistere, da lontano, a quanto stava accadendo nella sua patria: «Ho provato shock, dolore, impotenza, incomprensione e rabbia. Oltre al dolore per gli eventi in Ucraina, la morte delle persone, il bombardamento di città, arresti e persecuzioni di coloro che non erano d’accordo con la guerra, c’era un altro sentimento: come se la mia patria, la mia Russia non esistesse più. Come se tutto ciò che era collegato ad essa fosse stato avvelenato. Questa è una sensazione nuova e complicata per me e posso discutere di emozioni simili solo con i miei amici russi che capiscono, senza dover spiegare, di cosa si tratta. Probabilmente, questo sentimento può essere paragonato alla morte di una persona cara. Vivi ogni giorno con questo dolore. Per affrontare tutte le emozioni e le esperienze della guerra, cerco spesso di ricordare a me stessa che ci sono due Russie: la Russia di Putin e la mia Russia, dove vive la mia famiglia e molti amici, dove ci sono cose che amo e di cui sono orgogliosa. Nonostante questi sei mesi molto difficili, continuo a credere che la guerra finirà il prima possibile e l’Ucraina e la Russia saranno libere». Ho incontrato Mila a Mosca: le sono serviti due giorni per raggiungere via terra casa. In volo da Amsterdam a Riga e poi in autobus fino a Mosca. Mille chilometri e venti ore di viaggio.
Anche Elia si trova a Madrid da diversi anni, ha completato là i suoi studi in Marketing, trovando lavoro subito dopo. «È difficile e molto triste non poter tornare a casa: prima la pandemia, ora la guerra. Fortunatamente, i miei amici e conoscenti non mi hanno mai rivolto commenti negativi perché sono russa, anzi, mi supportano e mi chiedono se è necessario un aiuto. Allo stesso tempo, quando incontro persone nei locali o in qualche bar, la prima reazione al fatto che sono russa spesso è: “Ah, e com’è?” oppure “Ma come? Sei qui a divertirti mentre c’è la guerra?”. Non lo nascondo, ho ricevuto molti commenti del genere. All’inizio ho cercato di nascondere il fatto che fossi russa, perché avevo capito quale sarebbe stata la reazione. Ora però è cambiato tutto. Dico che vengo da là: se le persone hanno domande rispondo, se non ci sono domande, allora a posto. Se oggi i concetti di persona e di nazionalità sono diventati un tutt’uno, allora è inutile stare a parlare con chi lo pensa. Ho conoscenti che si trovano in altri Paesi, però, in cui le reazioni sono state più gravi».
Anche Ksenjia, che lavora come fotoreporter, si è vista sfumare la possibilità di un importante ingaggio a causa dell’inizio della guerra. Aveva appena cominciato a collaborare con un giornale quando, poco dopo il 24 febbraio, la direzione ha scelto di trasferire la sua sede fuori dalla Federazione Russa per sfuggire alla censura operata dal governo. Oltre alla difficoltà di trovare un nuovo lavoro, molte cose sono cambiate nella vita di tutti i giorni e, soprattutto, nelle prospettive future: «Ci si sente confinati qui dentro. Moltissimi siti internet sono stati chiusi e i pagamenti con l’estero sono stati bloccati. Quello che viene trasmesso alla tv suona assurdo e fuori dalla realtà. C’è l’impressione che le cose possano anche peggiorare, che tutto torni come trent’anni fa o prima. Noi però abbiamo creduto che un’altra Russia fosse possibile e che in un certo senso fosse già in atto un cambiamento. Una Russia cosmopolita e aperta. Una Russia senza più cortine».