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Home » Esteri

Lettera da Kiev, dove anche la pietà è morta. Il reportage di TPI

Immagine di copertina

A Mariupol un raid aereo ha colpito un ospedale con reparti maternità e pediatrici, ferendo decine di persone. A Irpin civili in trappola sotto al ponte bombardato. La capitale resiste, ma le scorte basteranno solo per altri sette giorni. Il drammatico racconto dall’Ucraina. Sul nuovo numero del settimanale di TPI - The Post Internazionale, in edicola da venerdì 11 marzo

Il tempo è tondo qui a Kiev. Non un tic tac sistemico di secondi e minuti che poi, quando girano, diventano ore. Nell’acquario in cui mi sento, rispetto a quello che accade fuori, il tempo me lo danno mortai e razzi. Domenica scorsa vicino a Irpìn – la città di 40mila abitanti a nordovest di Kiev che, se la prendono i russi, si porta in dote la strada per la capitale – ho contato una sequenza di lanci: un razzo ucraino ogni quaranta secondi. Chirurgici. Io non l’avevo mai sentito il rumore che fa un razzo dal vivo. Né quello di un mortaio. Né sapevo distinguere se fossero incoming o outcoming. E infatti mi costituisco subito e chiedo pietà sugli altari sempre molto imbanditi dei colleghi supernerd di balistica, che basta un orecchio e sanno perfino geolocalizzarli, i colpi. Io no. Però, ecco, quei due rumori – il primo di un’eco arrotata, il secondo tonfo e tronfio insieme, come un balanzone d’artiglieria che ti piomba addosso e quando te ne rendi conto è ormai tardi per rendertene conto – sono passati da suono a materia alle 16.30 di domenica 6 marzo.

Hanno deciso di incarnarsi, purtroppo nel senso letterale, di prendere insomma le carni di due fratelli, un maschio e una femmina, della loro madre e di un volontario che li aiutava nel percorso verso la salvezza. La pietà, che in guerra di solito, dopo la verità, è la seconda vittima, aveva coperto con due lenzuoli i corpi dei primi. E portato già via dall’asfalto annerito quelli dei secondi. Accanto ai cadaveri un trolley, la speranza di una vita nuova in 55×40, la salvezza di fronte, la morte alle spalle. La seconda ha allungato le braccia fameliche sui corpi in fuga. E se li è portati indietro, giù nel baratro di Irpìn, da dove erano venuti e dove per fato o per Volontà s’era disposto dovessero tornare per sempre. À la guerre comme à la guerre «e più non dimandare», insomma.

La storia ha già pronta una medaglia d’oro a tutti i valori civili e militari possibili per la tigna della resistenza di Irpìn.

Aggrappati alla vita

Ma se qualcosa ho provato nei tanti giorni passati in quella lingua d’asfalto che per tre chilometri dalla periferia di Kiev punta dritta verso Irpìn, è la fragilità e l’assoluta indifferenza del destino, in fondo. Ho visto anziani di novant’anni salvarsi anche se costretti su sedie a rotelle da soviet. Adulti con stampelle di legno che neanche geppetto, tirarsi fuori dalla caienna della città sotto attacco russo. Giovani e bambini, spesso, no. Ho provato per la prima volta paura, che se ci pensate è uno dei sentimenti più difficili da governare. Ho visto i volti pieni di balze e le pelli ormai troppo stanche di vivere degli anziani di Irpìn. E ho pensato a quanta forza avessero quegli esseri umani, pur nel momento di loro massima debolezza. Ho incrociato molti occhi in questi giorni a meno tre, con un vento che arriva dai Freddi e la neve leggera ma ghiacciata che punta dritta a zigomi, nocche e naso.

E per la prima volta ho dato una forma alla disperazione, quella di uomini e donne dagli sguardi sbarrati, ma ancora vivi, non persi insomma, non sottratti alla relazione. Una donna, avrà avuto 80 anni, camminava lercia di fango con ai piedi un paio di pantofolone di lana, cui per ventura qualcuno aveva pensato di attaccare una suola un po’ più solida.

Aveva l’aria di chi pensava di aver finito, di aver saldato il conto, alla fine della vita, sul mastrino delle cose disumane che tocca vedere.

E invece la vita è un nuovo rimestare, anche senza colpa, anche se sei tra i giusti. Sotto quello che resta del ponte fatto saltare di Irpìn le persone attraversano su assi di legno le acque gelide del fiume. Arrivano due ragazze. Avranno sì e no vent’anni. Una di loro ha un piumino color fango, quasi mimetico vista la situazione logistica in cui si trova. Nella mano destra tiene salda la gabbietta di un gatto che non miagola neanche più. Non dice nulla, la ragazza. Mi guarda e basta. Ma quegli occhi diventano vitrei, fissi e dritti, ma vitrei di lacrime. Dietro di lei avanza una soldato in mimetica. Tiene in mano due giacinti piccoli e con il bulbo in vista.

Uno lo porge alla prima. L’altro alla ragazza del gatto.

Indietro non si torna

È la festa della donna in fondo anche da qui, sotto un ponte di cui russi e ucraini rivendicano, a seconda, il bombardamento. Anche nella brodaglia di acqua e fango che si è formata. Anche se indietro non puoi tornare e avanti non riesci neanche a immaginarti come potrà essere. A volte basta un po’ di colore per uscire dal nero che la storia ti ha voluto cucire addosso. Senza chiedertelo.
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