Polveriera Moldavia: così rischiamo di esportare la guerra fuori dall’Ucraina (di G. Gramaglia)
La Transnistria è poco più grande della Val d’Aosta ma può incendiare ulteriormente il conflitto. Kiev accusa Putin di voler annettere la regione separatista moldava. Mosca smentisce. Chisinau però è in allerta: la neutralità del Paese sembra già compromessa
Se non ci fosse il precedente dell’Ucraina, mi verrebbe di fare spallucce di fronte all’intreccio difficilmente districabile di allarmi e di provocazioni che, a ondate ricorrenti, nell’ultimo anno, hanno al centro la Moldavia. Ma, da quando la Russia ha invaso l’Ucraina – cosa che a me pareva inverosimile, ancora alla vigilia dell’aggressione – nessuna ipotesi, anche la più improbabile, può più essere presa alla leggera. Tanto più che nessuno mostra moderazione, nel contesto attuale: né Mosca, né Kiev e neppure Chisinau, dove c’è almeno l’attenuante della paura.
Paradossalmente, la situazione è più tranquilla a Tiraspol, capitale dell’unità territoriale autonoma della Transnistria, una sorta d’autoproclamata repubblica secessionista filo-russa, striscia di terra lunga e stretta da nord a sud, tutta dentro la Moldavia, ai confini con l’Ucraina, grande poco più della Valle d’Aosta, dove si parla russo e si paga in rubli.
Al centro della tempesta
La Transnistria, “de facto” Stato indipendente, con tanto di frontiere e dogane, ma non riconosciuto dai Paesi dell’Onu, neppure dalla Russia, e Tiraspol sono nell’occhio del ciclone: la tempesta è tutta intorno a loro e a causa loro, ma lì non accade nulla. Meno di mezzo milione di abitanti, un terzo dei quali nella capitale, la Transnistria è una delle tante anomalie prodotte dallo smembramento dell’Unione sovietica, di cui la Moldavia faceva parte. È piena di anacronismi e di contraddizioni: la squadra di calcio della capitale, lo Sheriff, dal nome della maggiore azienda del Paese, di cui è proprietario il figlio di un ex presidente, Igor Smirnov, è campione di Moldavia e, per la Moldavia, disputa la Coppa dei Campioni, dove nell’autunno 2021, affrontò anche l’Inter, perdendo 1 a 3 sia in casa che a San Siro.
Definire Tiraspol una città post-sovietica sarebbe un errore, perché è rimasta una città sovietica, ferma nel tempo agli anni Settanta/Ottanta, con il monumento a Lenin di fronte al Parlamento e l’omaggio ai caduti dell’Armata Rossa nella Grande Guerra Patriottica, come i russi chiamano la Seconda Guerra Mondiale. L’anomalia è che le sole bandiere degli Stati amici che sventolano in città sono quelle dell’Abkhazia e dell’Ossezia, entità simili alla Transnistria, create dopo la guerra della Russia alla Georgia nel 2008.
L’esistenza della Transnistria fa nascere sospetti, alimentati dall’Ucraina, di un intervento di Mosca in Moldavia per annettersi l’entità filo-russa. Il Cremlino smentisce, Kiev rilancia, Chisinau, dove è in atto una crisi politica, nega minacce, ma è in allerta. E, da entrambe le parti, ucraina e russa, s’insinua il dubbio di provocazioni del nemico per fare credere a operazioni ostili russe in Moldavia o ucraine in Transnistria. Militarmente, operazioni del genere appaiono senza senso: gli ucraini hanno l’esigenza di non sottrarre forze al fronte anti-invasione; e i russi si sono già mostrati vulnerabili, se ampliano troppo l’area d’azione.
Aspirazioni europee
La scorsa settimana, venerdì 3 marzo, il Parlamento di Chisinau ha aggiunto un tassello al mosaico di polemiche e provocazioni, varando in prima lettura un disegno di legge per cambiare il nome della lingua da moldavo a rumeno. La lingua è di fatto la stessa e i confini nel tempo sono spesso cambiati – e talora non esistevano.
La legge dà un segnale di allontanamento dall’area di influenza della Russia; e qualcuno la vede come un passo verso l’unificazione con la Romania (e, quindi, l’ingresso nell’Ue e nella Nato). I deputati moldavi comunisti e socialisti filorussi hanno protestato; e, qualche giorno prima del voto sulla legge, manifestanti filorussi avevano provato a occupare il palazzo del governo.
Il disegno di legge è stato votato da 56 deputati (su 101). La deputata Veronica Rosca, del partito Azione e Solidarietà (lo stesso della presidente europeista Maia Sandu), ha affermato che l’iniziativa vuole solo adeguare il quadro normativo all’interpretazione della Corte costituzionale sulla lingua di Stato della Repubblica di Moldavia. I deputati filorussi comunisti e socialisti, che inizialmente non partecipavano alla seduta, sono entrati in aula, hanno bloccato la tribuna centrale del Parlamento e hanno gridato, brandendo cartelli: «Vergogna», «Moldavia», «Dimissioni».
Tre giorni prima del voto parlamentare, martedì 28 febbraio, centinaia di persone s’erano radunate in piazza a Chisinau, per chiedere le dimissioni del governo della presidente Sandu ed elezioni anticipate. Parte dei manifestanti aveva cercato di fare irruzione nella sede del governo: fermati dalla polizia, s’erano poi diretti verso il municipio. Alcuni di loro erano stati arrestati.
Vadim Fotescu, un deputato di Sor, un partito filorusso, aveva detto: «Vogliamo elezioni anticipate. Chiediamo che sia osservata la neutralità, come è scritto nella Costituzione, così che il nostro Paese non sia trascinato in operazioni di guerra … Il governo deve pagare le bollette energetiche che sono più volte aumentate per colpa delle autorità».
Secondo il partito di governo Azione e Solidarietà, le proteste erano un tentativo di «destabilizzare la situazione del Paese». La manifestazione, con partecipanti arrivati da tutta la Moldavia, era stata organizzata dal Movimento per il Popolo, che riunisce organizzazioni e partiti diversi, fra cui Sor.
Le proteste e il voto della legge sulla lingua cadevano a ridosso dell’anniversario di presentazione della domanda di adesione all’Ue, il 3 marzo 2022: un obiettivo prioritario per la presidente Sandu. Il Paese è fra i più poveri dell’Europa: grande un sesto dell’Italia, con cinque milioni di abitanti scarsi e un reddito pro capite medio intorno ai 5.230 dollari, superiore solo a quello ucraino.
Nell’occasione dell’anniversario, il vicepremier e ministro degli Esteri e dell’Integrazione europea Nicu Popescu ha detto: «L’anno trascorso è stato segnato dalla brutale guerra della Russia contro l’Ucraina, che condanniamo fermamente e che colpisce il nostro Paese. In questa regione diventata pericolosa dall’oggi al domani, possiamo sopravvivere solo come membri dell’Unione europea».
Presentata la domanda d’adesione, la Moldavia ha ottenuto lo status di Paese candidato, al pari dell’Ucraina. «Stiamo ora lavorando intensamente – ha spiegato Popescu – per attuare le riforme raccomandate dalle Istituzioni europee e recepire l’acquis comunitario nella nostra legislazione», passi necessari sulla via dell’adesione.
L’obiettivo, nel 2023, è «soddisfare le nove raccomandazioni della Commissione europea e accelerare il processo di allineamento alla legislazione europea, così … da poter avviare i negoziati di adesione all’Ue nel prossimo futuro … È importante … prevenire la destabilizzazione del Paese da parte di gruppi criminali». Come Kiev, Chisinau cerca di serrare i tempi dell’adesione all’Ue, anche se alcune previsioni temporali appaiono eccessivamente ottimistiche.
Accuse incrociate
Il Cremlino non è indifferente all’evolvere degli eventi. «Naturalmente, la situazione in Transnistria è oggetto della nostra massima attenzione ed è ragione di preoccupazione», afferma il portavoce Dmitry Peskov. E il ministero della Difesa russo accusa Kiev di allestire «una provocazione armata contro la Transnistria», dove la Russia ha un contingente militare di circa 1.500 uomini.
Il governo della Moldavia bolla come «una menzogna» le illazioni russe, a partire da quelle sull’ipotetico utilizzo di materiale radioattivo in Transnistria: «Stiamo monitorando la situazione e non riscontriamo nulla che lo confermi», dicono le autorità di Chisinau.
Secondo la portavoce del ministero degli Esteri russo Maria Zakharova, ben nota alla stampa estera per le sue espressioni taglienti e colorite, i porti della regione di Odessa, inseriti nell’accordo sull’export di cereali dall’Ucraina, potrebbero essere serviti alla consegna di materiali radioattivi all’Ucraina: in particolare, il 16 febbraio sarebbero stati consegnati nel porto di Chernomorsk, aggirando i controlli doganali, container con sostanze radioattive e scritte in inglese, provenienti dal territorio di uno Stato europeo; e il 19 febbraio sarebbero stati consegnati nel porto di Odessa contenitori simili con la sostanza radioattiva California-252, comunemente usata per controllare l’integrità dei reattori delle centrali nucleari. In quelle circostanze, secondo la Zakharova, «il sistema di monitoraggio radioattivo» dei porti sarebbe stato disattivato.
Porta tra Europa e Russia
Nel giorno della manifestazione di massa a Chisinau, il Cremlino revocava un decreto del 2012 che indicava tra gli obiettivi della politica estera russa la «soluzione del problema della Transnistria», basandosi «sul rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale» della Moldavia. Un gesto che basta, di per sé, ad aumentare il rischio di un colpo di forza militare nella Regione.
La Transnistria si dichiarò unilateralmente indipendente nel 1990, ancora prima della dissoluzione dell’Urss, con un referendum che ottenne quasi il 90 per cento delle preferenze. Le autorità di Tiraspol rivendicavano di essere il vero Stato moldavo: quando, nel 1991, la Moldavia si rese indipendente dall’Unione Sovietica, inserendo nel suo territorio anche la repubblica separatista, lo scontro ci mise poco a divampare. Il conflitto scoppiò all’inizio del 1992: Tiraspol, con l’aiuto determinante dei russi, sconfisse rapidamente Chisinau.
Il cessate il fuoco venne mediato da Mosca, formando forze di peacekeeping con contingenti misti di Moldavia, Transnistria e Russia. La tregua, raggiunta in luglio, stabilì la separazione “de facto” dei due Paesi e la permanenza di soldati russi nella base militare del villaggio di Cobasna. Qui sono immagazzinate armi che potrebbero essere utili in un eventuale attacco verso la Moldavia; o verso l’Ucraina – Odessa è lontana una sessantina di chilometri appena dal confine.
Vicina a Mosca, ma senza un confine con la Russia, la repubblica separatista ha trovato un punto d’equilibrio nelle relazioni con la Moldavia soprattutto in seguito a tre avvenimenti successivi: primo, la sconfitta alle elezioni del 2011 del candidato filo-russo Anatoly Kaminsky che, d’intesa con il Cremlino, sosteneva un percorso di indipendenza sia dalla Russia sia dalla Moldavia; poi, dopo l’annessione della Crimea alla Russia nel 2014, il no di Mosca alla richiesta di Tiraspol d’essere anch’essa integrata nella Russia; infine, l’elezione alla presidenza di Vadim Krasnoselsky, votato per la prima volta nel 2016 e confermato nel 2021.
Questi fatti hanno in parte avvicinato la Transnistria alla Moldavia e all’Ue. I cittadini hanno quasi tutta la doppia (o tripla) cittadinanza, comprendendo la popolazione di ucraini, moldavi e russi, e possono attraversare il confine con la Moldavia. Anche dal punto di vista economico la relazione con l’Europa è forte: circa il 70 per cento dell’export di Tiraspol va verso l’Ue.
Mosca, però, mantiene influenza sull’area: la Russia ha un ruolo centrale nella fornitura di elettricità e di gas: e dalla Russia arriva la maggior parte delle rimesse. Mosca non ha mai riconosciuto finora l’indipendenza della Transnistria: il Cremlino prevedeva il reintegro della regione nella Moldavia, con uno status speciale, e il mantenimento della presenza militare russa. Una soluzione ovviamente rifiutata da Chisinau; a maggior ragione dopo l’invasione dell’Ucraina.