La mappa del fronte in Ucraina è rimasta (quasi) uguale nell’ultimo anno
Prima il raid russo a Bakhmut, poi la controffensiva di Kiev quindi l’ennesimo contrattacco di Mosca. Nell’ultimo anno, la linea di fuoco si è spostata di appena pochi chilometri e con l’arrivo dell’inverno la svolta è di nuovo rimandata. Ma nelle trincee si continua a morire
L’11 novembre 2022, le truppe ucraine riprendevano il controllo della città di Kherson e di tutta la porzione della sua oblast a ovest del fiume Dniepr. Un episodio che arrivava circa due mesi dopo la fulminea controffensiva compiuta da Kiev a Izium che le aveva permesso di riprendere il controllo di gran parte della regione di Kharkiv e che anticipava una pausa dovuta alle piogge, al fango e alla neve che si immaginava avrebbe lasciato la mappa bellica totalmente invariata fino alla primavera successiva.
La mappa è rimasta infatti invariata, ma non solo fino a primavera: a oltre un anno dal ritorno degli ucraini a Kherson le linee del fronte sono rimaste pressoché identiche, nonostante sia Mosca che Kiev abbiano provato in questo lungo lasso di tempo a prendere iniziative militari che speravano potessero dare una svolta alla situazione sul campo di battaglia.
Azione e reazione
All’inizio del 2023, infatti, la Russia aveva annunciato una nuova offensiva, la quale tuttavia ha finito per concentrarsi esclusivamente intorno alla città di Bakhmut, né il più importante né il più strategico dei centri abitati lungo il fronte ma che ha finito per trasformarsi in un tritacarne mortale per migliaia di soldati di entrambe le parti.
Alla fine, Mosca è riuscita a prendere il controllo della città in una vittoria che ha visto protagonista soprattutto il gruppo Wagner ed è stata usata dal leader della compagnia militare privata Yevgeny Prigozhin per proporsi come figura militare e politica di spicco. Proprio sulla scia del successo di Bakhmut, il capo della Wagner ha lanciato lo scorso giugno un ammutinamento conclusosi con la sconfitta e lo scioglimento della compagnia. Prigozhin, come è noto, è morto nell’esplosione del suo aereo alla fine di agosto in circostanze ancora non del tutto chiare.
Ma mentre a maggio la Russia completava le operazioni per prendere il controllo di Bakhmut, l’Ucraina stava già lavorando per mettere in piedi una grande controffensiva. Per quanto non siano stati esplicitati in termini ufficiali gli obiettivi di questa operazione, possiamo in gran parte supporli da affermazioni di figure militari e istituzionali e da ciò che si è visto sul campo di battaglia: riprendere il controllo di alcune città strategiche del sud e tagliare le vie di comunicazioni terrestri russe tra il Donbass e la Crimea lungo il mare di Azov. Un obiettivo sicuramente ambizioso che, infatti, ha visto una lunga preparazione anche mediatica durante la quale si è aperto un ampio dibattito sulle forniture militari di mezzi corazzati all’Ucraina. Dall’Europa e dagli Stati Uniti sono dunque arrivati moderni carri armati, a partire dai Leopard tedeschi, mezzi blindati di primo piano come i Bradley americani e missili in grado di colpire obiettivi a centinaia di chilometri. Tutte forniture che hanno contribuito a incrinare ulteriormente il rapporto tra la Nato, sempre più coinvolta nel conflitto seppur non in modo diretto, e la Russia. Quando poi all’inizio di giugno la controffensiva ucraina ha avuto inizio, la speranza di una rapida operazione di movimento si è scontrata con una dura guerra di logoramento contro le sofisticate linee difensive messe in piedi dai russi nel fronte di Zaporizhzhya, con un sistema di campi minati e trincee noto come “Linea Surovikin”, dal generale russo che l’aveva ideata, che non ha permesso ai mezzi corazzati la rapida incursione tanto sperata.
La controffensiva ucraina ha così deciso di cambiare in corsa il proprio assetto tattico, interrompendo le operazioni di movimento e passando ad azioni di logoramento, cercando di danneggiare le linee logistiche russe dietro il complesso sistema di fortificazioni e avanzando lentamente in punti specifici. Il risultato è stato un’avanzata di pochi chilometri nell’oblast di Zaporizhzhya che ha portato al controllo del villaggio di Robotyne. Una località che prima dell’inizio della guerra contava meno di 500 abitanti.
La strategia del logoramento
Con l’esaurimento della controffensiva ucraina il mese scorso, i combattimenti si sono focalizzati soprattutto su punti specifici del fronte, anche per l’arrivo, come ogni anno, della stagione delle piogge e della neve, col terreno fangoso che limita i movimenti dei mezzi corazzati. La Russia ha iniziato una pressione intorno alla città di Avdiivka, non lontana da Donetsk, mentre gli ucraini continuano a svolgere incursioni a est del fiume Dniepr cercando di costituire una testa di ponte: non sappiamo ancora se l’obiettivo sia riuscire a riprendere il controllo della sponda est del fiume o siano operazioni per distrarre i russi da altre zone del fronte. Ma al netto di cosa possa accadere in queste operazioni in corso, la mappa dell’Ucraina a un anno dalla controffensiva di Kherson è rimasta praticamente invariata.
Dal lato ucraino, ha parlato della situazione, definendola apertamente uno «stallo», il capo dell’esercito Valeri Zaluzhny in un trattato dal titolo “La moderna guerra di posizione e come vincerla”, i cui contenuti sono stati ospitati anche sul The Economist. Per il generale la situazione è sotto molti aspetti simile alla Prima guerra mondiale, e per via dell’alto livello tecnologico raggiunto dall’esercito ucraino si è arrivati a una parità di mezzi sul campo che può essere superata solo grazie a una crescita del livello degli armamenti e delle tecnologie da parte di uno dei contendenti. Parole che hanno fatto discutere e che secondo molti vanno viste anche nell’ottica di uno scontro interno al campo ucraino tra Zaluzhny e il presidente Volodymir Zelensky.
Senza via d’uscita
Che vi sia o meno questo scontro, da un anno nessuna delle due parti riesce a prevalere sul campo in maniera decisiva e come un anno fa ci si aspetta che la pausa operativa invernale possa favorire la diplomazia, ma anche sotto questo aspetto la situazione sembra difficile. Per quanto nel campo occidentale stiano prendendo piede elementi di “stanchezza” (anche le parole di Giorgia Meloni ai comici russi lo lasciano intendere), non sembrano esistere al momento vie d’uscita facili da imboccare per nessuna delle parti in campo.
Manca infatti ancora oggi un terreno comune perché ci possa essere una soluzione condivisa e nel rispetto del diritto internazionale, e oltre a questo esiste il timore che smettere di sostenere Kiev possa vanificare tutti gli sforzi compiuti finora. Un sostegno dalle tempistiche tuttavia incalcolabili e che richiederebbe senz’altro più tempo ed energie, soprattutto di fronte a un avversario, come la Russia, che ha dalla sua parte i numeri della demografia e può permettersi una guerra lunga con meno difficoltà dell’Ucraina.
Anche per questo, il segretario alla Difesa statunitense Lloyd Austin, si è recato lo scorso 20 novembre per una visita a sorpresa a Kiev e ribadire a Zelensky il sostegno americano per uno sforzo di lunga durata. A dimostrare il fatto che possono esserci stalli e stanchezza, ma non sembrano al momento esserci vie d’uscita facili che possano portare a una fine della guerra, e non è chiaro a che costo per entrambe le parti queste vie possano essere percorse.