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L’ora della diplomazia in Ucraina, l’ex ambasciatore Francesco Bascone a TPI: “Dobbiamo tornare a trattare”

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Credit: AP Photo

“Putin ha tutto da guadagnare da una continuazione della guerra, puntando sull’elezione di Trump. A Kiev e ai suoi alleati invece serve una tregua prima che torni The Donald”. Parla l’ex ambasciatore dell’Italia in Serbia, a Cipro e presso l’Osce

Fallita la controffensiva di Kiev, si prospetta una lunga guerra d’attrito che può finire per allontanare gli Stati Uniti e indebolire l’Occidente agli occhi del mondo. Esiste una strada più breve per uscire da questa impasse?
«Chiaramente, una guerra prolungata non gioverebbe a nessuna delle parti coinvolte. È inevitabile che in una lunga guerra di attrito il Paese con risorse più limitate, ovvero l’Ucraina, sia perdente. A più riprese è stato ipotizzato che la Russia si stesse avvicinando al punto di esaurimento delle proprie risorse economiche e belliche e potesse quindi essere disponibile ad un accordo che prevedesse il suo ritiro da una parte dei territori occupati in cambio della neutralità dell’Ucraina. Credere che le sanzioni potessero indebolire la Russia al punto da fermare la sua aggressione è stato ingenuo. Le sanzioni vengono sempre aggirate, tanto più quando il Paese aggressore è tutt’altro che isolato internazionalmente. La Russia ha dimostrato una notevole capacità di riconversione industriale e potenziamento delle industrie belliche, importa munizioni e droni da Corea del Nord e Iran, ha ri-orientato le esportazioni di petrolio e in misura minore quelle di gas ma beneficiando dell’aumento dei prezzi. A differenza delle democrazie, è in grado di far accettare sacrifici economici alla popolazione. È dunque in grado di sostenere una guerra di attrito se se ne ripromette dei vantaggi. Ben diversa è la situazione dell’Ucraina, a maggior ragione se si prospetta un calo del flusso di aiuti occidentali, sia americani che europei. Putin ha dunque tutto da guadagnare da una continuazione del conflitto, anche qualora le ulteriori conquiste territoriali fossero modeste, puntando sulla elezione di Trump e cercando di allargare le crepe nella solidarietà occidentale all’Ucraina. Per contro è nell’interesse di Kiev e dei suoi alleati raggiungere una tregua prima possibile, comunque prima che il ritorno di Trump diventi una certezza».

Ci sono le condizioni per un armistizio?
«In genere, l’instaurarsi di un cessate il fuoco in un conflitto come questo è legato al raggiungimento di uno stallo sul campo di battaglia. Solo se entrambe le parti si convincono di non poter contare su significativi avanzamenti nei prossimi mesi, tali da giustificare la perdita di altre migliaia di vite umane, saranno inclini a trattare: non necessariamente sedersi a un tavolo negoziale, ma piuttosto autorizzare cauti sondaggi attraverso terzi. Per raggiungere non un trattato di pace, ma un accordo di cessate il fuoco. Quel momento propizio si era delineato forse dopo i primi limitati successi della controffensiva ucraina e prima che i russi riprendessero ad avanzare sul fronte orientale. E prima che si consolidassero i dubbi sulla volontà americana ed europea di sostenere la resistenza degli ucraini “as long as it takes”. I vaghi accenni di personalità russe a una loro disponibilità a negoziare un accordo, che sarebbero gli ucraini a non voler discutere, sottintendono condizioni che riflettano la sproporzione di forze e le “legittime” rivendicazioni russe basate sulla storia piuttosto che sul diritto. Putin ha recentemente riaffermato che gli obiettivi della guerra non sono cambiati: denazificare e smilitarizzare l’Ucraina, cioè imporle un governo depurato da tutti gli elementi nazionalistici (quindi filorusso) e uno status di neutralità e limitazione degli armamenti. E quanto agli obiettivi territoriali, nella intervista a Tucker Carlson ha chiaramente indicato che la fascia meridionale lungo la costa del Mar Nero storicamente e linguisticamente non ha mai fatto parte dell’Ucraina e rientra perciò nelle legittime rivendicazioni russe. Per indurre Mosca a più miti consigli sarebbe necessario un intervento esterno: non solo i buoni uffici di un piccolo Paese neutrale, bensì una mediazione guidata da un attore autorevole capace di esercitare un’influenza significativa».

Chi dovrebbe mediare l’armistizio?
«Un ipotetico binomio Cina-Stati Uniti. Pechino è l’unico attore in grado di esercitare un’influenza sulla Russia. Non possiamo aspettarci che agisca da “onesto sensale”, come avrebbe detto Bismarck, ma piuttosto come un alleato della Russia, così come gli Stati Uniti sono alleati dell’Ucraina. Finora non ha manifestato un interesse esplicito a svolgere questo ruolo. Solo nel caso in cui Xi Jinping ritenga vantaggioso raggiungere un accordo globale con gli Stati Uniti per stabilizzare la situazione internazionale, potrebbe essere interessato a promuovere un’intesa che comprenda una raccomandazione alla Russia di intraprendere negoziati per un cessate il fuoco, moderando le sue pretese territoriali. Ma è solo un’ipotesi, non ancora suffragata da prove di una simile volontà costruttiva. Al contrario, la Cina potrebbe trovare vantaggioso mettere l’Occidente in difficoltà, dimostrando la sua incapacità di far fronte alla sfida russa. E a dissuadere in questo modo gli Stati Uniti dal contrastare i disegni di egemonia regionale di altri Paesi non occidentali, a cominciare da quelli della stessa Pechino nel mar cinese meridionale».

Quali potrebbero essere i termini di un accordo?
«L’idea di una “pace giusta” che rispetti il principio di integrità territoriale dell’Ucraina, spesso paradossalmente evocata anche da coloro che criticano la presunta caparbietà dell’Ucraina nel difendersi invece di trattare, appare del tutto utopistica. In un’ottica più realistica, un mediatore (immaginiamo un trio Usa-Cina-Turchia) dovrebbe puntare a fermare i combattimenti lungo la linea del fronte attuale. Mosca si accontenterebbe di aver conquistato, di fatto, fra un quinto e un quarto del territorio ucraino, salvo completare eventualmente l’opera in un secondo tempo. Formalmente Kiev non cederebbe un pollice quadrato di terra, ma le prospettive di recuperare quelle regioni (destinate ad essere rapidamente ricostruite e russificate, come sta avvenendo a Mariupol e dintorni) sarebbero praticamente nulle. Avremmo dunque un nuovo “conflitto congelato” come quelli della Transnistria o di Cipro-Nord, in cui una nuova realtà territoriale imposta con le armi si stabilizza per 30 o 50 o più anni anche in mancanza del riconoscimento formale della comunità internazionale, o di buona parte di essa. Al tavolo dei negoziati la Russia potrebbe imporre, in base alla logica del “vae victis”, un correttivo a questa soluzione, già pesante per Kiev: il ritiro degli ucraini da quelle porzioni delle quattro regioni non ancora occupate dalle truppe russe, compresi i due capoluoghi Kherson e Zaporija. Non pretenderlo significherebbe nell’ottica russa cedere pezzi di regioni formalmente annesse al territorio nazionale sin dal 2022 e quindi violare la Costituzione. Sono pensabili scenari ancora più drastici: non è più un mistero che Putin ambisca a conquistare tutta la costa Nord del Mar Nero e il suo entroterra, coronando così il sogno di recuperare i territori conquistati da Caterina la Grande, e ora tornati ad essere etichettati come Novorossiya. Ne farà l’obiettivo di una futura guerra, fra alcuni anni, o pretenderà sin d’ora di staccarlo dall’Ucraina e sottoporlo ad uno status speciale, con l’effetto di costringere gli ucraini ad abbandonare il negoziato e riprendere i combattimenti pur con scarse probabilità di successo?».

Ma nel caso dell’Ucraina, si tratterebbe del primo episodio di occupazione di un territorio con la bruta forza militare dalla fine della Seconda guerra mondiale. Quali sarebbero le conseguenze per l’ordine internazionale liberale costituito nel dopoguerra?
«Certamente, l’ipotesi che i territori attualmente sotto il controllo delle truppe russe rimangano sotto l’amministrazione civile russa rappresenterebbe un salto qualitativo. Questo perché i precedenti citati riguardano secessioni di fatto assistite da un altro Paese, senza un’annessione formale. Nel caso delle quattro regioni ucraine, come testè accennato, pochi mesi dopo l’inizio dell’aggressione militare la Russia ha proclamato l’annessione (come già della Crimea dieci anni fa), delle due regioni del Donbass, Donetsk e Luhansk (solo in parte controllate dai ribelli filorussi sin dal 2014), e inoltre delle regioni di Zaporizhzhia e Kherson, cioè della riva orientale del basso Dnepr: una violazione aperta dell’ordine internazionale, e senza nemmeno la foglia di fico di una secessione di minoranze locali cui correre in aiuto. È un fatto compiuto costituzionale difficile da ribaltare attraverso futuri negoziati».

Dunque non si può incolpare l’Ucraina di eccessiva intransigenza?
«Il divieto di negoziare dichiarato da Zelensky all’inizio del conflitto era un modo per precostituirsi una posizione negoziale forte e respingere a priori proposte di compromessi territoriali. Chi giudica irragionevole una simile intransigenza, deve domandarsi se nel 1917, dopo Caporetto, sarebbe stato ragionevole chiedere la pace separata rinunciando al Triveneto e la Lombardia. Senza contare che allora il vincitore poteva penalizzare l’Italia per avere nel 1915 dichiarato la guerra in violazione di un trattato di alleanza; laddove l’Ucraina è stata aggredita in violazione del Memorandum di Budapest del 1994 e di altre norme internazionali».

Con l’elezione di Trump, l’Europa rischia di trovarsi più isolata a difendere l’ordine internazionale?
«L’elezione di Trump pare oggi sempre più probabile e crea una prospettiva di sganciamento degli Stati Uniti su cui è immaginabile che il governo russo costruisca le proprie strategie. Trump ha già detto che si occuperà di Indo-Pacifico, lasciando agli europei i focolai di crisi della loro regione. Ma sin d’ora la fazione più estrema dei repubblicani, guidata dall’influenza di Trump, ha boicottato ogni progetto di ripresa degli aiuti bellici all’Ucraina. Non direi che Trump voglia disinteressarsi dell’ordine internazionale, ma lo farà a modo suo, secondo la sua percezione delle priorità per l’America, e quindi in primo luogo a difesa di Taiwan, della libertà di navigazione nel Mare della Cina Meridionale e dell’indipendenza di Giappone, Corea del Sud e Filippine».

Dove si fermerà Putin?
«Gli scenari sopra delineati vanno dallo status quo sul campo di battaglia, al completamento della conquista delle quattro regioni sudorientali all’occupazione di tutta l’Ucraina Meridionale fino al Dnjestr e quindi alla saldatura con la Transnistria. Odessa è uno sbocco vitale per le esportazioni e importazioni dell’Ucraina. Se dovesse cadere sotto il controllo russo, l’Ucraina perderebbe di fatto la sua indipendenza. Fin qui parliamo di Ucraina. Putin in questi giorni ha negato di avere intenzioni aggressive verso Polonia o Lettonia, bontà sua. Ma è lo stesso Putin che due anni fa, quando già scaldava i motori dei carri armati, escludeva categoricamente di voler attaccare l’Ucraina. Già parecchi anni fa Putin ebbe a dichiarare che la dissoluzione dell’Unione Sovietica era stata “la peggiore catastrofe geopolitica del secolo XX”, lasciando capire che questo ingiusto ridimensionamento della Russia debba un giorno essere rimediato. Eppure fino al 2014, e forse fino alla vigilia di questa guerra, è verosimile che un attacco a territori di Paesi Nato non rientrasse nei disegni revanscistici di Putin. A meno che non si presentassero circostanze particolarmente propizie, con una parvenza di provocazione, come fu con la Georgia nel 2008 e con l’avvento dei nazionalisti a Kiev nel 2014 che offrì il pretesto per l’annessione della Crimea. Ma le ambizioni geopolitiche di una grande potenza possono evolversi, soprattutto nel corso di una guerra vittoriosa. Putin, che inizialmente accampava solo il diritto ad essere rispettato dall’Occidente e poi quello di essere trattato alla pari dall’America, è poi passato a rivendicare il diritto a una sfera d’influenza, simile a quella sempre riconosciuta agli Stati Uniti. Se l’espansione della Nato impedisce di attrarre nell’orbita della Russia i Paesi dell’ex impero zarista, può farsi strada la tentazione della conquista di altri territori, soprattutto ma non unicamente se abitati da russofoni. È dunque comprensibile che i Paesi Baltici e la Finlandia si sentano minacciati».

La Finlandia e la Svezia hanno fatto bene a entrare nella Nato? I Paesi Baltici hanno ragione a preoccuparsi per la loro integrità territoriale, o è una paranoia che potrebbe creare delle tensioni evitabili?
«È comprensibile, dicevo, che questi Paesi cerchino di porsi sotto l’ombrello della Nato. Ma si potrebbe anche sostenere che la loro adesione non abbia fatto che irritare ulteriormente la dirigenza russa, alimentando il complesso dell’accerchiamento, che quindi non migliori la loro sicurezza né quella dell’Alleanza nel suo insieme. Questo vale certamente per l’Ucraina, che l’Occidente aiuta a prescindere dal suo essere membro della Nato o meno. Dare per scontata la sua futura ammissione serve solo ad annullare una carta negoziale, per quanto oggi svalutata rispetto al passato. Se gli occidentali non saranno in grado di sostenere “as long as it takes” la guerra difensiva dell’Ucraina e quindi perderanno questo braccio di ferro finiranno per dover riconoscere di fatto la pretesa di ogni grande potenza a una sfera d’influenza; e tollerare che quella vocazione egemonica venga perseguita anche con la forza. Questo precedente potrebbe guidare le decisioni di Pechino sulla questione di Taiwan, ponendo l’America di fronte a un difficile dilemma».

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