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Home » Esteri

La misteriosa pista delle armi dalla Bulgaria all’Ucraina

Immagine di copertina
Credit: AP Photo

Sofia venderà 300mila munizioni dell’era sovietica “ad altri Stati europei”. Ma nega l’invio di aiuti militari diretti a Kiev, che da un anno però riceve le sue forniture. Intanto – con parte del ricavato – le autorità bulgare vogliono rifarsi l’arsenale, anche con sistemi Nato di ultima generazione. È un affare lucroso che conviene a tutti

Quando il presidente bulgaro Rumen Radev, all’uscita dal Consiglio europeo del 23 marzo scorso a Bruxelles, ha sentito l’ennesima domanda sull’invio di armi dal suo Paese all’Ucraina è sbottato: «Non sono stato chiaro?». Sofia, tengono a precisare le autorità bulgare da mesi, non rifornisce direttamente Kiev di aiuti militari e non partecipa nemmeno agli acquisti comuni europei di armi da mandare al fronte per fermare l’aggressione russa.

Eppure questo non significa che le munizioni fabbricate nel Paese non arrivino in Ucraina. Anzi, in un anno il giro di denaro ha superato il miliardo di dollari e conviene a tutti.

Un giallo milionario
Poco prima della sua sfuriata, Radev aveva presenziato a una riunione in cui i capi di Stato e di governo dell’Ue, come si legge nelle conclusioni del Consiglio, avevano raggiunto un accordo «per fornire, entro i prossimi dodici mesi, un milione di munizioni di artiglieria» all’Ucraina. Conclusioni sostenute anche dal leader bulgaro, nonostante il suo evidente dissenso.

La stampa però, aveva precisato Radev, avrebbe fatto meglio a concentrarsi sul comunicato pubblicato in merito dall’Agenzia europea per la Difesa (Eda), più che sulla dichiarazione finale del Consiglio. L’organismo certifica infatti che solo 23 su 27 Paesi dell’Ue (più la Norvegia) «hanno firmato l’accordo quadro per l’approvvigionamento comune di munizioni» al fine di «ricostituire le scorte nazionali degli Stati membri e/o aiutare l’Ucraina». Un elenco in cui la Bulgaria non figura, proprio come Irlanda, Slovenia e Danimarca.

Tuttavia, meno di 24 ore dopo le esternazioni del presidente della Repubblica a Bruxelles, il governo uscente di Sofia annunciava la decisione di destinare centinaia di migliaia di vecchie munizioni di epoca sovietica – ancora nelle disponibilità del ministero della Difesa – all’azienda statale VMZ Sopot, la più grande fabbrica di armamenti del Paese nonché l’unica impresa del settore ancora di proprietà pubblica, autorizzata a venderle ad altri Stati europei. L’obiettivo, ha spiegato alla stampa il ministro della Difesa uscente Dimitar Stoyanov, è sostituire queste munizioni con altre di nuova fabbricazione, «allo scopo di rinnovare le scorte in tempo di guerra» entro tre anni. Ma dove andranno a finire le vecchie munizioni? Nessuno lo sa con precisione, tutte le strade però – malgrado la contrarietà dei vertici bulgari – portano a Kiev.

Partiamo dal tipo di munizioni. Si tratta, secondo quanto emerso dall’annuncio del governo di Sofia, di proiettili per lanciagranate, per cannoni da 122 e 152 millimetri e per obici semoventi di fabbricazione sovietica. Esattamente il genere di rifornimenti di cui ha bisogno l’esercito ucraino per alimentare il suo vasto arsenale di armi prodotte ai tempi dell’Urss, compresi carri armati, obici, lanciagranate anticarro e lanciarazzi multipli, che costituiscono ancora quasi i due terzi degli armamenti a disposizione di Kiev. Come dire che domanda e offerta si incontrano perfettamente, ma questa sembra ben più di un’ipotesi.

Tra i primi a suggerire l’idea che queste armi potessero finire in Ucraina figura anche l’ex ministro della Difesa bulgaro, Boyko Noev. In un’intervista all’emittente locale bTV, l’ex ambasciatore presso la Nato ha dichiarato che «VMZ venderà queste munizioni tramite intermediari all’Ucraina». Non solo: l’affare, secondo Noev, «può cambiare le sorti della guerra».

Stime non ufficiali, riportate dal settimanale locale Capital, parlano infatti di 300 o 350mila proiettili per un valore di 175 milioni di euro, in grado di coprire il fabbisogno delle forze armate di Kiev per almeno tre mesi. Abbastanza da permettere agli altri partner europei di produrre e consegnare le munizioni calibro Nato che gli ucraini dovranno poi impiegare con le nuove armi promesse a Zelensky dall’Europa.

Triangolazioni pericolose
Ma come faranno questi proiettili ad arrivare a Kiev? La Bulgaria, come ribadito più volte dalle autorità locali, non invia direttamente armi all’Ucraina, almeno non più. Alla fine dello scorso anno, il Parlamento decise a larga maggioranza di fornire aiuti militari a Zelensky, attingendo dai depositi dell’esercito. Il presidente Radev, pur contrario alla decisione, emise un decreto in tal senso ma poi nessun altro carico di armi fu più inviato direttamente dal Paese a Kiev, nemmeno dai privati. Secondo una nota del ministero dell’Economia di Sofia, la Commissione bulgara per il controllo delle esportazioni non ha ricevuto alcuna richiesta di transazioni commerciali internazionali in materia di difesa con società o istituzioni statali ucraine tra il 24 febbraio 2022 e il 19 gennaio 2023 e dunque non è stato rilasciato alcun permesso di esportazione in questo senso.

Un dato ribadito proprio a gennaio anche dall’ex direttore esecutivo della VMZ Sopot, Ivan Ivanov, che in un’intervista all’emittente locale Bstv ha comunque precisato che Sofia esporta armi in oltre 60 Paesi «principalmente attraverso società che hanno una licenza e l’approvazione della Commissione».

Insomma, come sottolineato da Noev, tutto dovrebbe svolgersi attraverso intermediari e non sarebbe certo la prima volta. Grazie a triangolazioni con Paesi terzi, secondo un’inchiesta di Euractiv Bulgaria, soltanto lo scorso anno, Sofia avrebbe esportato indirettamente almeno 1 miliardo di dollari in armamenti, poi finiti sul fronte ucraino per fermare l’invasione di Putin. Un’altra indagine del tedesco Die Welt ha confermato l’arrivo di munizioni bulgare in Ucraina nelle prime fasi dell’invasione russa. D’altronde i risultati economici parlano chiaro.

Basti pensare che, secondo gli ultimi dati disponibili, nei primi nove mesi dell’anno scorso la VMZ Sopot ha aumentato di tre volte le vendite e registrato profitti 15 volte superiori al 2021. Altra particolarità rispetto all’anno precedente: la quasi totalità dell’export è avvenuta attraverso «un committente privato», mentre nel 2021 quasi metà delle vendite era passata direttamente tramite il locale ministero dell’Interno. Uno schema che piace soprattutto alla Commissione europea.

Forse sarà un caso ma la decisione annunciata il 24 marzo dal governo bulgaro di destinare all’export centinaia di migliaia di vecchie munizioni di epoca sovietica da sostituire con nuovi proiettili in realtà era stata adottata una settimana prima, pochi giorni dopo la visita nel Paese del Commissario europeo per il mercato interno, Thierry Breton. Il tour dell’ex ministro francese, secondo Politico EU, aveva previsto anche tre tappe in altrettanti siti di produzione segreti della VMZ Sopot. «La Bulgaria ha la capacità di aumentare significativamente le forniture agli attuali clienti che provengono dagli Stati membri dell’Ue, entro un lasso di tempo che potrebbe essere compatibile con ciò che cerchiamo», aveva detto Breton. «I Paesi che hanno scorte potranno inviarle in Ucraina e i produttori potranno aumentare la produzione per ricostituire queste scorte». Una partita che conviene a tutti.

Shopping armato
Nulla di tutto questo contraddice infatti l’affermazione delle autorità di Sofia (e del presidente Radev), secondo cui la Bulgaria non fornisce direttamente aiuti militari a Kiev. Se questo avviene, accade solo indirettamente. Inoltre, Sofia non rientra nell’iniziativa per rifornire l’Ucraina di un milione di proiettili d’artiglieria entro un anno. In primis perché la Bulgaria non li ha.

L’accordo raggiunto in sede comunitaria (a cui contribuisce anche la Norvegia) prevede l’invio a Kiev di munizioni da 155 millimetri calibro Nato, che le forze armate bulgare non utilizzano e che le fabbriche locali perlopiù non producono. Almeno per ora.

Con i proventi delle vendite delle rimanenze dei depositi d’epoca sovietica, la Bulgaria intende infatti modernizzare le proprie forze armate. Prima delle elezioni del 2 aprile scorso (le quinte in due anni risoltesi ancora una volta in uno stallo politico), il Parlamento di Sofia aveva approvato il programma di ammodernamento militare presentato dal ministro Stoyanov. Il Paese prevede di spendere 2,2 miliardi di euro per acquistare 16 nuovi caccia F-16 dagli Usa, che saranno pienamente operativi entro il 2027; 766 milioni di euro per 150 veicoli corazzati da vari Paesi; 543 milioni di euro per due pattugliatori marittimi di fabbricazione tedesca, che saranno consegnati entro il 2026; e altri 250 milioni di euro (almeno) di munizioni navali. A tutto questo si va ad aggiungere l’interesse mostrato da Sofia per i moderni sistemi di artiglieria da fornire ai reparti meccanizzati dell’esercito, tutti armati con munizioni da 155 millimetri calibro Nato.

Se il governo bulgaro non partecipa ancora ai programmi dello European Peace Facility (Epf), con cui alcuni Paesi dell’Ue finanziano il proprio riarmo e l’invio di forniture militari a Kiev, nei prossimi anni Sofia potrebbe cambiare idea, attirata dai quasi 2 miliardi di euro di fondi comuni già stanziati per aumentare la capacità produttiva delle imprese europee della difesa. Attualmente, l’azienda statale bulgara VMZ Sopot e le private Emco e Transmobile producono quantità limitate di queste munizioni, ma con i finanziamenti comuni europei potrebbero rapidamente riconvertire la propria produzione industriale. Per la gioia degli alleati della Nato e delle aziende del settore della Difesa. 

Il Superbonus delle armi
Intanto però, alcuni Paesi dell’Ue già si rifanno gli arsenali a spese dei vicini. In fin dei conti, la guerra è sempre una questione di soldi: se la corsa al riarmo è un grande affare per tutti in Europa, Stati membri compresi, la questione di come si spendono i fondi e soprattutto di chi alla fine pagherà il conto resta irrisolta. Anche se qualche sospetto su chi ricadrà la spesa ce l’abbiamo.

Nato nel marzo del 2021 con l’intento di «prevenire i conflitti, costruire la pace e rafforzare la sicurezza internazionale», specie in Africa, dall’anno scorso lo European Peace Facility (Epf) è diventato lo strumento preferito dai Paesi membri dell’Ue per armare e sostenere militarmente Kiev, oltre che per finanziare il riarmo del Vecchio Continente.

Si tratta di un fondo comune, dotato di un bilancio che per il periodo 2021-2027 non dovrà superare i 7,979 miliardi di euro. Ma non è uno strumento previsto dai trattati istitutivi dell’Unione europea e pertanto non tutti gli Stati membri sono obbligati a contribuire economicamente o a partecipare alle iniziative promosse dall’Epf. Tanto è vero che, ad oggi, solo 23 Paesi membri – Italia compresa – hanno stanziato meno di 2 miliardi di euro per finanziarne le attività. Eppure funziona secondo un principio di solidarietà.

Il fondo infatti rimborsa parzialmente le spese sostenute dai singoli Stati membri per aiutare militarmente l’Ucraina: ad esempio, se un Paese invia a Kiev una serie di armamenti, può chiedere all’Epf un indennizzo a un tasso di rimborso valido per tutti, pari all’84 per cento del valore delle forniture cedute agli ucraini. Il problema però è che nessuno ha stabilito un criterio unico per valutare correttamente queste armi e così sono cominciate le polemiche: alcuni Paesi sono stati accusati di essersi rifatti gli arsenali militari a spese dei vicini. Secondo un’inchiesta di Politico EU, «ogni Paese utilizza la propria metodologia» per calcolare i costi e questo crea confusione e lascia spazio ai trucchi contabili. Stando ai dati riservati del Servizio europeo per l’azione esterna (Seae), citati dal portale statunitense, sei Stati membri hanno presentato richieste di rimborso in base al prezzo di acquisto dei nuovi armamenti, invece che sulla base del valore attuale delle vecchie forniture inviate in Ucraina.

Tra questi figurano i baltici Estonia, Lituania e Lettonia ma anche Paesi come Finlandia, Francia e Svezia. Parigi, secondo il Seae, avrebbe presentato richieste di rimborso pari al 71 per cento del prezzo pagato per le sue nuove armi, Helsinki sarebbe arrivata addirittura al 100 per cento, mentre Stoccolma si sarebbe limitata a chiedere il 26 per cento. In termini assoluti però, è l’Estonia a fare la parte del leone: Tallinn ha chiesto oltre 160 milioni di euro di indennizzi per le donazioni militari a Kiev, ricevendo in totale circa 134 milioni di euro. Cifre che hanno fatto storcere il naso a più di un Paese membro, soprattutto considerando il fatto che le forniture inviate all’Ucraina emergono spesso da vecchi arsenali risalenti all’era sovietica.

La trasparenza non è certo una qualità del mercato delle armi e il fatto che l’Epf sia un fondo off-budget, cioè non finanziato con risorse comunitarie, non aiuta. In questo caso infatti, il Consiglio europeo non è tenuto a informare il Parlamento sull’impiego dei fondi. Tanto a pagare sono i cittadini europei.

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