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Guerra in Siria, Diario dal Rojava: Erdogan bombarda da un mese. E la comunità internazionale non lo ferma

Immagine di copertina
Il presidente turco Erdogan. Credit: ANSA/EPA/TURKISH PRESIDENTIAL PRESS OFFICE

Il racconto del conflitto dall'inviata sul campo di TPI, Benedetta Argentieri

Guerra Turchia curdi: diario dalla Siria – 11 novembre

Di Benedetta Argentieri, inviata per TPI da Kobane

Sono passati 33 giorni da quel mercoledì 9 ottobre. Un mese di guerra, di continue violazioni ai trattati internazionali, di crimini di guerra. Un mese e tre giorni che sembrano un’eternità e che ha cambiato la vita a oltre 5 milioni di persone che speravano di essersi lasciate alle spalle il conflitto. Invece, l’incursione turca ha ricordato ai curdi e a tutta la popolazione nel nord-est della Siria quanto fragile possa essere la pace.

Se in un primo momento c’è stata un’onda di sdegno internazionale, oggi la guerra continua con il placito accordo della comunità internazionale che sembra essersi assuefatta alle notizie che arrivano da questa parte del mondo. Complici, forse, le rivolte in Libano e in Iraq, un mondo sempre più instabile e in continuo fermento. Oppure la volontà politica a non inimicarsi troppo la Turchia che sembra non voler sentire ragioni e continuare ad ogni costo fino al raggiungimento dell’obiettivo.

Ma cosa è successo fino ad oggi? L’operazione “sorgente di pace”, che in un primo momento mirava a stabilire una “safe zone” di circa 110 chilometri e profonda 30, sta mostrando il suo vero volto. La Turchia mira non solo ad allontanare elementi delle Ypg (Unità di Protezione del Popolo), ma a un vero e proprio cambio demografico nella zona. Una pulizia etnica, cercando allo stesso tempo di prendere il controllo di tutto il confine.

Siria, guerra Turchia-curdi: il disegno di Erdogan

D’altronde il presidente turco Recep Erdogan aveva mostrato il suo disegno al Palazzo di Vetro durante l’annuale vertice dei capi di stato mondiali a New York, “qui ci sono i terroristi”. Nelle ultime settimane anche il ministro degli Esteri turco ha rispolverato dai cassetti una vecchia cartina dell’impero ottomano. L’idea di Ankara è quella di trasferire nel confine quasi 2 milioni di rifugiati siriani, a maggioranza araba, che provengono da altre zone del paese e spingere i curdi molto più a sud.

“Quella non è una zona per loro”, ha detto Erdogan durante una trasmissione televisiva. Peccato però che tutta la zona è a maggioranza curda ed è denominata Rojava, Kurdistan occidentale. In questi sette anni l’area è stata sotto il controllo dell’amministrazione autonoma del nord est della Siria che ha portato avanti un processo politico con un forte accento sull’ecologia, il femminismo e la democrazia diretta. Una rivoluzione che voleva portare la democrazia in una zona di un paese che ha vissuto per oltre 40 anni sotto un regime autoritario e che da nove anni vive una guerra civile.

Nel mese di novembre la Turchia ha preso il controllo di questa zona cuscinetto. E, esattamente come è successo ad Afrin, nella parte occidentale, nel gennaio 2018, ha cominciato una “turchizzazione” della zona. Nelle città di Tal Abyad (Gire Spi) e Rais Al Ain (Serekanye) sono state cambiate tutte le insegne. Prima erano in tre lingue: arabo, curdo e siriaco. Oggi in arabo e in turco. Un piccolo esempio molto esplicativo della situazione.

Molti civili non hanno alcuno intenzione di tornare, sono terrorizzati dalle milizie delle NSA. E hanno ragione, molti di loro sono ex combattenti dello Stato Islamico o di altre milizie islamiche radicali, poi riciclati dalla Turchia nell’offensiva. D’altronde fin dai primi giorni dell’operazione era chiaro lo stampo islamico e violento dei miliziani. Esecuzioni sommarie, anche di civili, e violenze.

Il 12 ottobre, tre giorni dopo l’inizio della guerra, Hevrin Khalaf, 35 anni, segretario generale del partito per il Futuro della Siria, è stata trascinata fuori dalla sua auto, picchiata, e quindi uccisa. Nel filmato dei jihadisti si vede il corpo inerme di Khalaf di fianco alla sua macchina blindata piena di fori di proiettili, donata pochi giorni prima dagli americani che temevano per la sua vita.

Gli Stati Uniti sono i primi responsabili di questa situazione. Il 6 ottobre infatti, durante la notte, il presidente americano Donal Trump, aveva annunciato il ritiro delle truppe dalla zona senza avvisare nessuno. Nemmeno il Pentagono, figuriamoci le FDS, Forze Democratiche Siriane che si sono svegliate in mezzo alla notte consapevoli che da lì a breve sarebbe cominciata una nuova guerra.

Guerra Turchia-curdi: una catastrofe umanitaria

Ad oggi ci sono stati oltre mille morti, 5mila feriti, e 300mila sfollati. Numeri altissimi che non faranno altro che crescere. La Turchia continua la sua offensiva e ha espanso le sue mire. Ora la guerra infuria ben al di fuori dei confini della “safe zone”. Erdogan sta cercando di tranciare il territorio in due, tagliare fuori Kobane e cominciare un nuovo attacco anche lì.

Ma questa è una guerra impari. Non si combatte. I turchi si servono di droni, con cui bombardano i villaggi, mentre nelle retrovie i miliziani avanzano. Senza copertura aerea non potrebbero mai passare. E invece avanzano e non si fermano. Le FDS resistono e non mollano.

Anche ieri, domenica 10 novembre, ci sono stati bombardamenti nella zona di Tel Tamer, Ain Issa, Serekanye. Sono morti civili, soldati del regime, e alcuni delle Forze Democratiche Siriane. I turchi non fanno distinzione tra militari e operatori umanitari. L’ennesima ambulanza è stata presa di mira, lo stesso è successo l’altro ieri. Tra i crimini particolarmente odiosi di questo mese, il bombardamento della diga di Alok che serve acqua potabile per circa 400.000 persone nella zona di Hasakah, a questo vanno aggiunti almeno altre 200.000 persone, e il campo di Al-Hol, dove ci sono quasi 71.000 persone affiliate ad ISIS.

Gli operatori umanitari hanno chiesto alla comunità internazionale almeno di intervenire su questo punto. Per il momento non c’è stata alcuna risposta. Dopo un mese di guerra la catastrofe umanitaria per una zona martoriata dal conflitto è cominciata.

La cosa che lascia stupefatti è, per dirla con le parole del presidente francese Emanuel Macron, come la Nato non sia riuscita a imporsi quando uno dei suoi membri ha compiuto un’azione unilaterale che danneggia altri alleati sul campo. Nessuno sembra essere in grado di far cambiare idea a Erdogan, o per lo meno arginarlo. La Russia con il memorandum di Sochi sembrava aver riempito il vuoto lasciato dagli Stati Uniti. Ma sul terreno si è vista poco differenza, tranne che i soldati del regime al fronte. Anche loro non hanno copertura aerea e sono morti in diversi attacchi.

Il 13 novembre Erdogan è atteso alla Casa Bianca, la speranza è che si trovi una soluzione politica. Ma in pochi ci credono davvero.

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