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Home » Esteri

Sudan: la guerra dimenticata infiamma da due anni ma nessuno ne parla

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Rifugiati sudanesi diretti in Ciad. Credit: Adrien Vautier - AGF

Ha già provocato oltre 12 milioni di sfollati e rifugiati e non si sa quanti morti. Ma dopo quasi due anni nessuno ne parla e intanto il conflitto scoppiato a Khartoum continua nell’indifferenza della comunità internazionale

Khuloud e il figlio di 14 mesi, Ismail, vivono a Rokoro, nel Darfur centrale. Rasha e il figlio di 9 mesi Omer si sono rifugiati a Kassala, non lontano dal confine tra Sudan ed Eritrea. Saleh, 5 anni, e la sorellina Maimouna, di tre, vivono invece nel campo profughi di Arkoum, nel Ciad orientale, dove, rimasti senza genitori, sono stati affidati a una famiglia scappata dal loro stesso villaggio. Le loro storie raccontano la realtà di un conflitto che, scoppiato il 15 aprile del 2023, continua a mietere vittime nel silenzio e nell’indifferenza della comunità internazionale, in particolare in Europa e negli Stati Uniti.

Fronte mobile
Da quando, il 15 aprile di due anni fa, è scoppiata la guerra a Khartoum tra i generali Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan e Mohamed Hamdan Dagalo (conosciuto come Hemeti), il Sudan è in preda a una catastrofe alimentare, aggravata dalle epidemie, dal sempre più precario accesso ai servizi igienico-sanitari e dalla più grave crisi di sfollati e rifugiati al mondo, arrivati a superare un totale di 12 milioni.

La violenza ha sventrato la capitale Khartoum e trasformato in un campo di battaglia mezzo Paese, il cui popolo, preso ancora una volta in ostaggio dopo 40 anni di guerre e tre decenni di dittatura, era riuscito a tornare libero nel 2019 soltanto per subire, nel giro di un anno e mezzo, l’ennesimo golpe militare (il loro). Da allora il conflitto tra le Sudanese Armed Forces (Saf) di al-Burhan e le Rapid Support Forces (Rsf), le milizie eredi dei famigerati Janjaweed accusati di crimini indiscriminati in Darfur e guidate da Hemeti, ha diviso il territorio dello Stato africano. L’esercito e i suoi alleati controllano il nord e l’est del Sudan, gran parte delle zone centrali e meridionali del Paese e mantengono una serie di basi d’appoggio nel capoluogo del Darfur settentrionale, El Fasher. Le Rsf invece hanno in mano quasi tutto il Sudan occidentale e il Darfur, ampie porzioni della regione dei Monti Nuba, nel Kordofan meridionale, e alcune aree nel centro e nel sud dello Stato, compresa buona parte della capitale Khartoum.

Nel corso degli ultimi due mesi però, gli uomini di al-Burhan hanno tentato numerose controffensive nell’area della Grande Khartoum, nello Stato di Gezira e nel Darfur settentrionale, conquistando soltanto limitate porzioni di territorio, riuscendo però a riconquistare il palazzo presidenziale della capitale. Dopo quasi due anni di guerra insomma il conflitto va avanti, indisturbato. Nessuno conosce il reale numero delle vittime che, secondo le stime dell’Onu e di varie ong presenti sul campo, potrebbe aggirarsi intorno ai 145mila morti, molti dei quali causati dalla fame.

Gli scontri infatti hanno distrutto l’economia locale, alimentando la corsa dei prezzi dei beni di prima necessità, ormai saliti alle stelle anche a causa delle tensioni sul mercato dei cereali dovute alla guerra in Ucraina, provocando anche la chiusura del 90 per cento delle scuole e mettendo a rischio l’operatività del 70 per cento delle strutture sanitarie attive nelle aree colpite dal conflitto. Così quasi 25 milioni di sudanesi, metà della popolazione, è a rischio insicurezza alimentare. Oltre 12 milioni hanno dovuto abbandonare le proprie case e di questi circa 3 milioni si sono rifugiati all’estero, per lo più nei vicini Ciad e Sud Sudan. Ma le prime vittime, come sempre sono i più fragili. Almeno 19 milioni di bambini infatti non hanno più un’aula scolastica dove frequentare le lezioni e oltre 3,2 milioni di minori rischiano di soffrire di malnutrizione.

Fame e sanità al collasso
Ismail e Omer sono tra i bambini a rischio. A dicembre il primo ha iniziato ad avere diarrea e vomito e per questo la madre Khuloud l’ha portato in un centro sanitario sostenuto dall’Unicef a Rokoro, nel Darfur centrale, per sottoporlo allo screening per la malnutrizione. I volontari della struttura hanno immediatamente fornito a Ismail del cibo terapeutico e ora il bambino di 14 mesi sta meglio. Ma come lui ce ne sono migliaia.

Anche Rasha ha portato il figlio di nove mesi, Omer, in un centro finanziato dall’Unicef a Kassala, non lontano dal confine con l’Eritrea. La famiglia ha affrontato un viaggio estenuante per scappare dai combattimenti, seguendo una carovana di sfollati che li ha portati prima a Gezira, poi a Gadaref e quindi a Kassala. Qui il bambino è stato ricoverato per ben 12 giorni a causa della malnutrizione, un problema comune tra chi ha perso la propria casa. Tanto che nell’agosto scorso il Famine Review Committee (Frc), un sistema di monitoraggio internazionale indipendente sostenuto tra l’altro dalle Nazioni Unite, certificò la situazione di «carestia» che stava affliggendo il campo di Zamzam, nel Darfur settentrionale, dove vivono oltre 400mila sfollati. Ma la situazione non sta migliorando. Con il protrarsi del conflitto infatti, secondo l’Unicef, quest’anno quasi 770mila bambini di età inferiore ai cinque anni soffriranno di malnutrizione acuta grave, la forma più mortale.

Ad aggravare il problema c’è anche il collasso del sistema sanitario locale. Secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), oltre il 70 per cento degli ospedali e delle altre strutture mediche nelle aree colpite dal conflitto sono state danneggiate o distrutte o non possono accedere a sufficienti forniture di materiali, energia e carburante. Gli operatori in prima linea, tra cui infermieri, dottori e altro personale essenziale, non vengono pagati da mesi. La consegna di vaccini, farmaci e altri prodotti sanitari è ostacolata dagli scontri mentre le continue epidemie sono alimentate da un limitato accesso all’acqua potabile e ai servizi igienici adeguati, soprattutto nei sovraffollati campi per sfollati, aumentando il rischio di trasmissione di queste malattie. In totale, stima l’Oms, circa 3,4 milioni di bambini di età inferiore ai cinque anni rischiano di contrarre patologie epidemiche, tra cui morbillo, malaria, polmonite, malattie diarroiche e colera. Malgrado questa situazione però, il pericolo maggiore proviene sempre dai gruppi armati.

Attacchi ai civili
Dal 31 gennaio al 5 febbraio, secondo gli ultimi dati disponibili, l’Ufficio per i diritti umani delle Nazioni Unite ha documentato almeno 275 morti tra i civili, uccisi a seguito dei bombardamenti di artiglieria, degli attacchi aerei e dei raid con droni compiuti dalle parti in conflitto nella capitale Khartoum e nelle regioni del Darfur e del Kordofan. Una cifra tre volte superiore al già gravissimo bilancio delle vittime registrato nei sette giorni precedenti, fermo a 89 morti. In totale, nel corso del 2024, l’Ufficio ha documentato oltre 4.200 civili uccisi nel corso del conflitto, anche se il dato – per stessa ammissione dell’Onu – è sottostimato. Il clima di impunità intanto, come denunciato nell’ultimo rapporto delle Nazioni Unite sulla situazione in Sudan, non aiuta.

«I continui e deliberati attacchi contro la popolazione e gli obiettivi civili così come le esecuzioni sommarie, la violenza sessuale e altre violazioni e abusi, sottolineano il totale fallimento di entrambe le parti nel rispettare le regole e i principi del diritto internazionale umanitario», ha affermato l’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, Volker Türk, secondo cui «alcuni di questi atti potrebbero costituire crimini di guerra».

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In particolare, tra l’aprile 2023 e il novembre 2024, l’Onu ha documentato circa 120 casi di violenze sessuali «legate al conflitto» ai danni di 162 donne, 36 ragazze e 5 uomini. Nello stesso periodo sono stati uccisi almeno 12 giornalisti, di cui due morti in carcere, mentre altri 31, tra cui quattro croniste, sono stati imprigionati «in modo arbitrario». «L’uso persistente della violenza sessuale come arma di guerra in Sudan è profondamente scioccante», ha commentato Türk. «Mentre si intensificano i combattimenti per il controllo di Khartoum e di El Fasher, resto preoccupato per la protezione dei civili, in particolare di quelli appartenenti a gruppi che sono stati sottoposti a persistenti discriminazioni».

Un altro rapporto redatto da un panel di esperti nominati dal Consiglio di sicurezza dell’Onu e trapelato a gennaio alla stampa denuncia infatti l’operazione di «pulizia etnica» compiuta dalle milizie alleate delle Rsf di Hemeti a El Geneina, nel Darfur occidentale, soprattutto ai danni della minoranza Masalit, che avrebbe provocato tra le 10 e le 15mila vittime soltanto nei primi tre mesi di conflitto. Intanto, a fine gennaio, sull’edizione per la Somalia dell’organo di propaganda del sedicente Stato Islamico (Isis), al-Naba, è comparso un appello a portare la “guerra santa” in Sudan, dove il gruppo terroristico è presente da quasi un decennio, e ad «approfittare della lotta tra i due miscredenti Burhan e Hemeti» per impiantare un «embrione a lungo termine della jihad» nel Paese. Minacce e violenze che hanno costretto milioni di persone a fuggire nel vicino Ciad.

Futuro incerto
È il caso di Abdoulaye e sua moglie Hawaye, che dall’estate del 2023 vivono nel campo profughi di Arkoum, nel Ciad orientale, insieme ai tre figli e ad altri due bambini salvati da un attacco che aveva preso di mira il loro villaggio in Darfur. Subito dopo lo scoppio della guerra, per precauzione, i genitori avevano mandato i propri bambini a vivere in Ciad con alcuni parenti. Pochi mesi dopo però un gruppo armato attaccò il loro stesso villaggio in Sudan, costringendo anche Abdoulaye e Hawaye a incamminarsi verso il confine. Durante la fuga, malgrado l’uomo fosse stato ferito, la coppia soccorse i piccoli Saleh, di 5 anni, e la sorellina Maimouna, di tre, rimasti orfani e salvati da alcuni vicini. Da allora, entrambi si prendono cura dei due bambini come fossero i loro stessi figli. «Queste famiglie hanno sopportato violenze e difficoltà inimmaginabili mentre fuggivano dalla loro regione nativa del Darfur, in Sudan», ha spiegato Nathalie Etienne, responsabile dell’Unhcr nel campo. «Eppure hanno aperto le loro case e i loro cuori per prendersi cura dei bambini che hanno perso i genitori». Un gesto di grande generosità, che cozza con l’atteggiamento quasi indifferente dei Paesi più ricchi nei confronti del conflitto.

Anche a causa del sempre più precario quadro internazionale, la maggior parte dei leader mondiali, con Europa e Stati Uniti in testa, ha scelto di ignorare la catastrofe in corso in Sudan, mentre gli sforzi diplomatici promossi dai Paesi arabi del Golfo e dalla Turchia per arrivare a un cessate il fuoco sono finora falliti. La precedente amministrazione Usa, guidata dal presidente Joe Biden, aveva lanciato l’Aligned for Advancing Lifesaving & Peace in Sudan (Alps) per promuovere un coordinamento globale per la pace, un’iniziativa la cui sorte resta in sospeso con il nuovo governo di Donald Trump, che ha tagliato gli aiuti esteri statunitensi e sta anche smantellando l’agenzia federale per lo sviluppo internazionale Usaid. Intanto, mentre nel 2024 sono stati finanziati solo il 63 per cento dei fondi necessari per fronteggiare la crisi, quest’anno le Nazioni Unite e i loro partner chiedono di raccogliere altri sei miliardi di dollari per assistere circa 26 milioni di persone in Sudan e nei Paesi limitrofi che ne accolgono i rifugiati.

«Il Sudan è un’emergenza umanitaria di proporzioni sconvolgenti», ha denunciato il sottosegretario generale Onu per gli affari umanitari, Tom Fletcher. «La carestia sta prendendo piede. Infuria un’epidemia di violenze sessuali. I bambini vengono uccisi e feriti. La sofferenza è spaventosa. Ma il nostro piano è un’ancora di salvezza per milioni di persone. Dobbiamo fermare i combattimenti, finanziare gli aiuti, fornire assistenza al popolo sudanese e dare un migliore accesso via terra, mare e aria a coloro che hanno bisogno di aiuto». Speriamo che qualcuno ascolti.

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