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La guerra delle spie di Israele: così Tel Aviv convince i palestinesi a fare il doppio gioco

Immagine di copertina
Immagine di repertorio. Credit: AGF

C’è chi mappa i vicoli alla ricerca di ordigni, chi segue i gruppi armati e chi vende il proprio corpo in cambio di informazioni. Migliaia di palestinesi lavorano per Tel Aviv sia a Gaza che in Cisgiordania. Spesso solo per ottenere un passaporto o per curare un parente. Se catturati rischiano la morte ma se smettono subiscono minacce dall’Idf. Chi sopravvive però vive ridotto in miseria, nella paura di essere ucciso

Una donna ricurva di una certa età cammina zoppicando, avanza a fatica nelle strade strette di Jenin, in Cisgiordania. Sembra parlare da sola. Scesa da una macchina proveniente da Burqin, villaggio a pochi chilometri di distanza, si sta recando a passo lento all’ospedale Shifa, nel cuore della città. In una mano tiene un sacchetto con delle medicine, nell’altra un piccolo registratore con una telecamera, che sembra uno di quei dispositivi a pulsanti usati dagli anziani per contare il numero di invocazioni al Signore che si ripetono continuamente, una specie di rosario digitale. Dopo la farmacia dell’ospedale, la donna si infila nei vicoli del campo profughi di Jenin camminando senza meta e bisbigliando a bassa voce. Conosce bene il campo e si muove con familiarità, pur non essendo di lì. All’altezza della Moschea Azzam, l’anziana si rende conto di essere seguita e aumenta il passo entrando in una via, Al Awdah, che crede possa farla uscire rapidamente dal quartiere, dove una macchina la attende. Ma commette un errore. Ci sono due vie con lo stesso nome e quella appena imboccata è una strada chiusa.

L’anziana viene accerchiata dai giovani a volto coperto che la mettono a terra, la infilano a forza su un’auto e la portano in un garage poco lontano, dove viene interrogata per ore. la settantenne era una spia ed era seguita da tempo nei suoi movimenti. Quel registratore serviva a mappare un’area del campo profughi di Jenin dove l’esercito israeliano credeva ci fossero dei nascondigli delle milizia armate palestinesi attive in città. «Mi hanno detto che se non avessi collaborato mi avrebbero negato i medicinali per il diabete», ha dichiarato la donna.

Ma l’anziana è solo un membro di un enorme esercito che ogni giorno è costretto a lavorare per Tel Aviv. Secondo stime dell’Autorità nazionale palestinese, sarebbero almeno 13mila le spie palestinesi attive tra Gaza e la Cisgiordania: donne, uomini, anziani, giovani. C’è chi cammina e passa informazioni mappando le vie strette di Gaza o di al Khalil alla ricerca di ordigni, chi monitora i movimenti dei gruppi armati palestinesi in tempo reale e chi ancora vende il proprio corpo in cambio indicazioni sui tunnel o su personalità palestinesi. Ad alcuni viene promesso il passaporto israeliano, ad altri soldi e case, ad altri ancora la possibilità di curare un proprio figlio, padre, marito.

Ricatti, soldi, sesso, minacce
Le modalità di reclutamento utilizzate dallo Shabak (Shin Bet), il servizio segreto israeliano, sono diverse. Ma spesso tutto ha inizio ai varchi di frontiera: i checkpoint che migliaia di palestinesi devono attraversare per recarsi in Israele, per lavoro, salute o per studio. Ed è qui che avvengono i contatti e i colloqui. Secondo Roni Shakid, ex membro dello Shabak, «all’inizio è essenziale instaurare con loro un rapporto di empatia, di comprensione e poi di fiducia, solo così possiamo proporgli di collaborare con noi, sicuri di potergli affidare anche un’arma senza il timore che ci tradiscano».

Hidaya ha 30 anni, è di Gaza e suo figlio è gravemente malato. Prima del 7 ottobre, circa una volta al mese, si recavano all’ospedale Sheba Tel-Hashomer a Tel Aviv per delle visite specialistiche. La prassi per uscire dalla Striscia prevedeva che la domanda venisse valutata e approvata dallo Shabak. Ma l’ultima, racconta Hidaya, fu rifiutata. «Mi hanno chiamata al telefono dicendomi che se volevo portare mio figlio a farsi curare dovevo lavorare per loro, altrimenti mio figlio poteva anche morire». Hidaya ha rifiutato l’accordo ma tanti altri, sotto pressione e con urgenze mediche, accettano.

Secondo l’ispettore Islam Shawan, che si occupa dei dossier delle spie di Gaza, questo sarebbe solo il primo di tanti modi che Israele utilizza per agganciare i palestinesi attraverso il ricatto psicologico. Oltre ai bisogni sanitari, c’è anche l’onta del ricatto sessuale come arma di reclutamento: «Ci sono giovani donne palestinesi», afferma Islam, «che vengono filmate a loro insaputa in rapporti sessuali con altri uomini e vengono poi minacciate: o le informazioni o diffondiamo il video. Alcune accettano e iniziano a collaborare, altre si rifiutano e tentano il suicidio dalla vergogna». Altri giovani vengono invece reclutati con la promessa di liberare il figlio o la moglie arrestati in detenzione amministrativa in Israele o con la promessa di un lavoro a lungo termine.

La stanza degli uccellini
Ma la raccolta delle informazioni non avviene solo sul campo. Ci sono luoghi dove estorcere informazioni può essere altrettanto fruttuoso: in carcere. Sono circa novemila i detenuti palestinesi all’interno delle prigioni israeliane, di cui tremila in detenzione amministrativa, cioè senza processo  né accuse. Trattenuti per motivi di sicurezza. Tra questi, più di 600 sono minorenni.

Questa vasta popolazione carceraria è una miniera d’oro per ottenere informazioni utili sul territorio, la politica e i gruppi armati palestinesi. Dagli anni ’70, all’interno delle carceri, i servizi di sicurezza di Tel Aviv hanno introdotto un sistema chiamato “La stanza degli uccellini”: personale addestrato di origine palestinese, che funge da imam, da guida spirituale per il carcere negli spazi dedicati alla preghiera comunitaria.

Spesso sono persone insospettabili, che conoscono il Corano a memoria e sono stimati dalla comunità carceraria. Durante i colloqui con i fedeli raccolgono informazioni sui familiari e ascoltano drammi e vicende umane degli internati, dando conforto e speranza. E così, gradualmente, costruiscono rapporti e legami di fiducia essenziali per estorcere informazioni e ricattare i detenuti. 

Il più anziano 007 palestinese
Abdel Hamid Rajub ha 70 anni. Ha lunghi baffi, uno sguardo profondo, barba sale e pepe e a vederlo sembra un uomo saggio. Uno di quelli che hanno mille storie di vita da raccontare come i nonni. Abita in uno scantinato, senza luce, e pieno di muffa, all’interno di uno stabile diroccato alla periferia di Tel Aviv. Per fare luce usa delle candele, che appoggia per terra accanto a un materasso. La povertà lo sta consumando ma un tempo i soldi non riusciva nemmeno a contarli. «Ho iniziato a fare la spia 30 anni fa, dentro le carceri israeliane», racconta Rajub a TPI. «Mi spacciavo come membro di Fatah, raccoglievo informazioni e le passavo ai servizi israeliani». Una volta uscito dal carcere Rajub viene inviato in Libano per partecipare all’eliminazione di Abu Jihad, collaboratore stretto di Arafat, che muore vittima di un ordigno fatto esplodere nella sua abitazione a Beirut.

Ashraf Awid era un 40enne palestinese di Gaza, reclutato nel 2002. È la spia sul campo che permetterà alle forze israeliane di localizzare prima Ahmad Yassin e poi Abdel Aziz al-Rantisi, tra i fondatori di Hamas, entrambi uccisi con bombardamenti mirati, grazie alle informazioni precise della fonte palestinese. Kamal Hammad invece è la spia che consegnerà a Yahya Ayyash, dirigente militare di Hamas con cui aveva rapporti di amicizia, il cellulare imbottito di tritolo che lo ucciderà sul colpo. «Senza queste preziose risorse sul campo per noi sarebbe stato impossibile riuscire a colpire i nostri nemici», afferma Roni, l’ex 007 dei servizi israeliani.

Le spie palestinesi vivono sul filo del rasoio ogni giorno. Se catturate rischiano la morte, se smettono sono minacciate dalle forze israeliane. Ma mentre in Cisgiordania l’Anp e altri gruppi armati si occupano di scovare le spie, a Gaza, dal 2010 è attiva l’Unità Ombra: un reparto specializzato di Hamas, adibito alla ricerca attiva e all’arresto delle migliaia di spie attive nella Striscia. A dirigere l’unità è Yahya Sinwar, ora a capo dell’intera organizzazione a Gaza. Ashraf Awid, cosi come Kamal Hammad citati prima, cadranno vittime proprio dell’Unità Ombra dopo essere stati scovati e condannati, crivellati di colpi nelle strade di Gaza.

Non tutte le spie però rimangono in attività. Alcune ancora in servizio, altre in “pensione”, cercano disperatamente di fuggire da Gaza e dalla Cisgiordania, sperando di trovare rifugio in Israele. Ma superato il confine spesso sono arrestati con l’accusa di immigrazione clandestina. Senza un permesso di soggiorno valido, alcuni sono rigettati all’interno dei Territori palestinesi dalla polizia israeliana, altri riescono a rimanere in Israele vivendo in stato di semi-clandestinità, ai margini della società con la costante minaccia di morte da parte dei palestinesi residenti.

Rajub, la spia più anziana, è tra questi: «Siamo rifiuti umani, usati per anni e ora scaricati come spazzatura». All’interno del palazzo dove abita c’è un cortile dove sono accatastati di rifiuti. Giovani sbandati con la siringa al braccio accendono fuochi per scaldarsi. Colonne di fumo riempiono il cortile. «Pochi giorni fa qualcuno ha cercato di dare fuoco all’intero stabile», conclude Rajub. «Mi avevano promesso soldi e case di lusso e invece vivo qui nella miseria, con la paura di essere ucciso».

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