Layla al-Sheikh e Robi Damelin, due madri (in lutto) per la pace, a TPI: “Nessuno uccida in nome dei nostri figli”
Layla al-Sheikh è palestinese. Robi Damelin israeliana. Entrambe hanno perso un figlio. Uno ucciso dai soldati di Tel Aviv. L’altro durante la seconda Intifada. Oggi parlano contro la guerra: “Se noi ci siamo riconciliate, possono riuscirci tutti”, spiegano insieme a TPI. "Quando ci si incontra si allevia la paura. Abbiamo sentito l’una la storia dell’altra e abbiamo visto che le nostre lacrime hanno lo stesso colore"
«Quando perdi un figlio, contestualmente, perdi anche la paura. Non temi più nulla». Layla al-Sheikh è una madre palestinese, ha un sorriso gentile e una timidezza vorace, un tono di voce pacato e un ritmo introspettivo, fatto di pause e di sospiri. Nella vita non ha mai pensato che si sarebbe trovata a rilasciare interviste: la sola idea le metteva addosso un senso di angoscia. «Ho studiato economia. Ma poi, da quando il mio piccolo è stato ucciso dalle dinamiche di questa guerra, tutto è cambiato».
Mentre racconta il suo calvario, ha a fianco Robi Damelin: israeliana, dna da attivista, dice con orgoglio che il suo primo gesto di disobbedienza civile l’ha compiuto a cinque anni «per salvare un cavallo dalle frustate». Grande amica di Layla al-Sheikh, riempie le sue parole di enfasi e le pronuncia in fretta, muovendo veloce lo sguardo, come se volesse tenere d’occhio ogni minimo dettaglio di contesto. Anche a lei il conflitto ha ammazzato un figlio: a colpirlo a morte è stato un palestinese. Ma ancor prima di spiegare come, si immobilizza e scandisce per bene: «Quando capita questo, ci sono delle domande fondamentali da porsi per non odiare e basta, bisogna immedesimarsi con l’avversario: cosa sei disposto a fare se raggiungi il culmine della disperazione? Che tipo di adulto puoi diventare se vivi soprusi continui, come succede ai bambini palestinesi? Di quali atti di barbarie puoi renderti capace? Ecco perché nessuno deve permettersi di uccidere nel nome di mio figlio».
Ora Layla e Robi, insieme, hanno scelto di dedicare la propria vita a parlare della pace possibile, intrecciando la piccola storia (quella individuale) alla grande Storia (quella dei popoli). Lo fanno attraverso l’associazione Parents Circle, fondata nel 1994, dopo gli accordi di Oslo, dall’israeliano Yitzhak Frankenthal anch’egli «genitore orfano» del figlio Arik. Nessuna delle due parla di perdono («non si accetta mai l’uccisione del proprio figlio»), entrambe credono invece nella riconciliazione. Perché «quando si incontra l’altro, si allevia la paura: abbiamo sentito l’una la storia dell’altra e abbiamo visto che le nostre lacrime hanno lo stesso colore».
L’impegno dal basso
Battir, Cisgiordania, novembre 2002. L’esercito israeliano inizia a lanciare lacrimogeni durante una delle consuete incursioni. Il gas raggiunge la casa di Layla al-Sheikh e i polmoni del suo piccolo di sei mesi, Qusay, che inizia a respirare a fatica. Durante la corsa in auto per raggiungere l’ospedale, la famiglia viene bloccata per ore dai soldati israeliani, a un checkpoint. Qusay muore poco dopo. «A lungo non ho più rivolto la parola a persone israeliane. Poi ho partecipato a una riunione di Parents Circle, che riunisce genitori di una parte e dell’altra, e ho scelto di non odiare. Continuo a credere che sia possibile per questa e per la prossima generazione trovare un dialogo di pace, una tregua. Se a riconciliarsi sono riuscite le madri, possono riuscirci tutti».
Layla è convinta che l’azione femminile sia fondamentale: «Credo che le donne abbiano un potere e che abbiano il dovere di utilizzarlo: è tempo di dire la nostra. Per questo ho scelto di impegnarmi anche in Women of the sun, organizzazione di donne palestinesi che lavora insieme alle donne israeliane di Women wage peace: uno dei nostri punti di riferimento era Vivian Silver, assassinata da Hamas il 7 ottobre. Era una mia amica».
Ofra, Cisgiordania, marzo 2002. Nel mezzo della seconda Intifada, un cecchino palestinese apre il fuoco contro i soldati israeliani appostati a un checkpoint a nord di Ramallah, uccidendo dieci uomini. Tra loro c’è David Damelin: prima di imbracciare un’arma era stato uno studente di filosofia all’università di Tel Aviv. Aveva 28 anni ed era il figlio di Robi. Lei oggi ha 77 anni e quando c’è da comprendere il perché delle cose, non si tira mai indietro: «Abitavo in Sudafrica, sono arrivata in Israele come volontaria in un kibbutz dopo la Guerra dei sei giorni. Quando i miei figli hanno iniziato il servizio militare sono rimasta sconvolta». Perché hanno accettato la leva? «C’è un senso di paura atavica radicato negli israeliani a cui corrisponde un forte istinto di protezione della comunità: difenderla è un dovere e una responsabilità sociale a cui non puoi sottrarti. Si deve partire da questo per comprendere gli israeliani», spiega Damelin a TPI. «La sconfitta inflitta da Hamas all’esercito israeliano il 7 ottobre ha messo in crisi convinzioni radicate: è la prima volta che Hamas contrattacca e vince. Questo ha fatto sentire le persone indifese, le ha terrorizzate. E quando ci si sente umiliati si attacca in modo feroce».
Girare il mondo per parlare di riconciliazione e di pace è sempre più dura per le due attiviste, tra gli ostacoli della politica e la disapprovazione dei parenti e delle comunità. Ma non hanno alcuna intenzione di fermarsi: «Il conflitto si sta propagando negli altri Paesi creando sempre più antisemitismo e islamofobia: bisogna interrompere questo odio che si propaga e che distoglie l’attenzione da chi soffre», ci ripete Layla. Il senso di questa frase lo esplicita Robi: «Sembra che tutti si siano dimenticati della Cisgiordania, che si trova sotto coprifuoco dall’8 ottobre 2023. Significa che migliaia di uomini non possono più venire in Israele a lavorare: non portano a casa un soldo. E i bambini non vanno a scuola. Non c’è libertà di movimento e i coloni fanno quello che gli pare senza dover rendere conto a nessuno, agiscono fuori da ogni controllo e responsabilità. La Cisgiordania è una pentola a pressione».
Ostacoli politici
In questo contesto, è quasi un miracolo per le due madri riuscire a proseguire l’attività dell’associazione e ad alimentare un processo di pace dal basso. Ma la loro forza sta in un numero: tre. Dopo il 7 ottobre, Layla e Robi temevano infatti che delle oltre 700 famiglie che compongono Parents Circle ne restassero poche. Al contrario: a lasciare sono state solo in tre: «Significa che c’è speranza». Certo, la strada è in salita: «Non siamo affiliati a nessun partito. Siamo un’organizzazione trasversale e comunque non esiste alcun partito israelo-palestinese, anche se ci piacerebbe».
A dire il vero, lavorare sulla riconciliazione era complesso anche prima di questa guerra: «Il governo israeliano ha deciso di bandirci dalle scuole ben prima del 7 ottobre. Lavoravamo con studenti e insegnanti da vent’anni, portando un israeliano e un palestinese nelle classi delle superiori. Gli studenti potevano ascoltare la storia di un palestinese, confrontarsi con il suo senso di perdita, potevano porsi reciprocamente delle domande».
Parents Circle era l’unica ong israelo-palestinese ammessa nelle scuole. «Itamar Ben Gvir, leader dei coloni, aveva fatto di tutto per ostacolarci», ci ricorda Damelin. «Una volta diventato ministro, insieme al titolare dell’Istruzione, ha fatto in modo di bandirci. Abbiamo cominciato a organizzare i nostri incontri fuori dalle scuole e, nel frattempo, stiamo cercando di impugnare quel divieto davanti alla Corte suprema».
Non è la prima volta che l’associazione si appella alla Corte. «Ogni anno celebriamo il Joint Memorial Day, organizzato dai Combatants for Peace e dal Parents Circle-Families Forum», una Giornata della Memoria in cui, a Tel Aviv, si commemorano i morti di entrambe le parti. «Negli ultimi anni il governo, per pressioni di Avigdor Lieberman (fondatore e leader del partito della destra radicale, ndr), del primo ministro Benjamin Netanyahu e di Yoav Gallant (ex comandante dell’Idf e ministro della Difesa, ndr), ha provato a impedircelo. Ogni volta ci siamo rivolti alla Corte suprema e abbiamo vinto». Il governo ha anche tentato di fermare il campo estivo: partecipano 50 giovani palestinesi e israeliani tra i 14 e i 18 anni.
Cosa resta oggi? Un messaggio che Layla e Robi ripetono alla fine di ogni incontro: «Raccontate a tutti ciò che avete sentito: ciascuno di voi può fare la differenza». Intrecciando le piccole storie (individuali) e le grandi Storie (dei popoli).