Reportage TPI – La guerra delle salme di Israele contro i palestinesi: “I nostri figli senza pace pure da morti”
Spesso lo Stato ebraico non restituisce i corpi dei palestinesi uccisi. Prima del 2000, a questi cadaveri venivano persino asportati gli organi, soprattutto la pelle. Per Tel Aviv, tale pratica non avviene più. Ma le famiglie delle vittime e un’ong locale sospettano non sia mai finita
Nel 2008, negli uffici della Jerusalem Legal Aid & Human Rights Center (Jlac) in Cisgiordania, si presenta una coppia di anziani coniugi. La Jlac è un’organizzazione che si occupa di fornire assistenza legale ai palestinesi vittime di ingiustizie. La donna della coppia ha in mano una foto, delle lettere e diversi documenti: «Nostro figlio si chiamava Mashour al-Arouri, è stato ucciso nel 1976. Non ci hanno mai ridato il suo corpo. Vogliamo avere indietro il suo cadavere».
Mashour al-Arouri faceva parte del Fronte di liberazione palestinese. Lui, insieme a diversi combattenti, rimase ucciso in uno scontro contro i militari delle Israel Defence Forces (Idf) nel 1976. Nessuno dei corpi, caduti in quella battaglia, è stato mai riconsegnato alle famiglie, rimanendo nelle mani di Israele.
Il gruppo di avvocati della Jlac, allora, decide di portare il caso di Mashour davanti alla Corte Suprema israeliana. L’associazione, inoltre, decide di far partire una nuova iniziativa e pubblica degli annunci dove si offre assistenza a tutte quelle famiglie che aspettano il corpo dei propri cari, uccisi in Israele. Solo nel primo mese, arrivano cento telefonate. Questo evento dà l’inizio alla storia che stiamo per raccontare.
Fine pena mai, neanche con la morte
Non restituire i corpi alle famiglie fa parte della pratica di sfinire, psicologicamente, il popolo palestinese. La cultura islamica ha la resurrezione come uno dei princìpi fondamentali del proprio credo. Per questo, tradizionalmente, i corpi vanno seppelliti il prima possibile. Una volta sistemata la salma, si celebra il defunto, o la defunta, con una veglia di tre giorni. Non avere un corpo da seppellire, in questo caso, non permette alle famiglie di chiudere il cerchio del proprio dolore. Inoltre, soprattutto nei contesti più religiosi, c’è il peso che il proprio caro non avrà pace fin quando non avrà avuto una degna sepoltura, e gli onori che merita. Il vuoto, per queste famiglie, è incolmabile.
In Israele, il sistema della detenzione dei cadaveri non è qualcosa di nuovo. È una pratica che va avanti dagli anni Quaranta. I primi casi, documentati, risalgono al periodo del mandato britannico.
Dalla seconda Intifada in poi, come riportato dall’agenzia di stampa palestinese Wafa, Israele ha anche usato i cadaveri come pedine di scambio nelle trattative con Hamas
Per legge, in Israele, anche se morti in carcere, i detenuti rimangono in custodia fino alla fine della loro pena. I palestinesi accusano questa pratica definendola una tortura psicologica per il loro popolo. Le indagini sulla detenzione dei corpi non si limitano a questo. Dalle ricerche viene fuori qualcosa di molto più sconvolgente.
Banche organi e cimiteri di numeri
Nel 2009, il giornalista freelance svedese Donald Boström scrive un articolo per la rivista Aftonbladet, riprendendo delle sue vecchie ricerche già compiute in ambito accademico. Boström ottiene delle dichiarazioni, di medici e personale addetto, che ammettono l’asportazione degli organi ai danni dei palestinesi, sia quelli uccisi in battaglia che quelli morti in carcere. Gli espianti sarebbero avvenuti illegalmente e senza nessun consenso da parte delle famiglie. Ma queste dichiarazioni sono solo la punta dell’iceberg.
Boström aveva già lavorato in Israele come reporter durante la prima Intifada, in quel caso emersero già i suoi primi sospetti. Il giornalista, negli anni Novanta, aveva documentato la restituzione del corpo di un cittadino palestinese morto in Israele. Il ragazzo si chiamava Bilal Ghanem. Una volta restituita la salma, la famiglia trovò una cucitura che attraversava tutto il torace di Bilal. A questa scoperta seguì un’autopsia: l’esame provò la mancanza di diversi organi dal corpo del ragazzo.
Boström, nel suo articolo, riprese anche una dichiarazione rilasciata dal dottor Yehuda Hiss, capo dell’istituto forense di Tel Aviv nel 2000, che ammise: «Si prelevavano gli organi dei combattenti palestinesi o dei detenuti ma non è che si uccideva per questo scopo. Lo facevamo solo una volta che questi erano morti», dichiarava il dottore quasi giustificando tale pratica. «Comunque si prelevavano gli organi anche dei soldati israeliani deceduti in combattimento, nemmeno alle loro famiglie chiedevamo il permesso. Però, precisiamo che queste pratiche non esistono più. È una cosa che si è fatta fino alla fine degli anni Novanta».
Una volta pubblicato l’articolo, tra Svezia e Israele scoppiò un caso diplomatico. Lo Stato ebraico accusò il giornale di antisemitismo e di inneggiare all’odio verso gli ebrei e chiese non solo la rimozione dell’articolo ma anche la condanna pubblica dell’inchiesta. La Svezia rispose però difendendo il diritto alla libertà di stampa e così l’articolo rimase pubblico.
Il suo autore, David Boström, cominciò a ricevere minacce di morte, venne accusato di nazismo e antisemitismo. Più tardi dichiarerà: «Faccio il giornalista da 25 anni. Mi sono occupato di casi di razzismo e ingiustizie. Non sono né antisemita né nazista, ho solo riportato delle dichiarazioni».
Dopo il clamore mediatico, Israele restituì alle famiglie 60 corpi. A venti di loro venne fatta un’autopsia, in seguito al rilevamento di cicatrici sospette. A tutti e venti mancavano degli organi: valvole cardiache, reni, cornee e, nella maggior parte dei casi, pelle.
Nello stesso anno la tv israeliana Channel 2, realizzò un documentario. Parte di quella trasmissione, negli ultimi giorni, è diventata virale sui social media. Durante il documentario, viene intervistata l’antropologa israeliana Meira Weiss, a cui si chiede cosa ne pensasse delle dichiarazioni del dottor Hiss, rilasciate nove anni prima. La professoressa risponde: «Non abbiamo mai preso organi dai nostri soldati. Si prendevano organi dai corpi dei palestinesi, dei lavoratori stranieri e da quelli dei rifugiati».
I giornalisti di Channel 2 si recano, in seguito, presso una “Skin bank”, una banca della pelle, chiedendo alla responsabile: «La skin bank israeliana è la più grande banca della pelle del mondo. Come sono rapportate queste cifre rispetto al numero dei donatori israeliani?». L’intervistata ride: «Rido perché, praticamente, i donatori israeliani sono quasi inesistenti». Dopo il documentario, alla fine del 2009, anche il quotidiano britannico The Guardian, pubblica un reportage.
Dopo un’ulteriore esposizione mediatica, le autorità israeliane ammettono di aver espiantato gli organi dei palestinesi, sia quelli uccisi in combattimento che quelli morti in carcere. Ma, dichiarano fermamente, che nulla di tutto questo è accaduto dopo l’anno 2000.
Nel frattempo, l’associazione Jlac vince il caso della famiglia Arouri: il corpo viene restituito ai genitori. Il 12 agosto 2010, a 34 anni dalla sua morte, si celebra il funerale di Mashour. L’ultimo saluto al ragazzo si trasforma in una marcia di migliaia di persone, tra loro, in centinaia camminano con la foto di un proprio parente, scomparso, ancora nelle mani di Israele.
Con la restituzione del cadavere di Mashour, si scopre un altro capitolo di questa assurda storia: quello dei cimiteri numerici. Si tratta di campi dove vengono seppelliti i palestinesi, quelli non restituiti alle famiglie. Le tombe sono contrassegnate da numeri, così da non essere riconosciute dai parenti. Questi luoghi vengono ritrovati nella Valle del Giordano e al confine con la Siria.
Il lusso di avere un funerale
Noi però abbiamo assistito a un funerale, nel campo profughi di Jenin, il più colpito di tutta la Cisgiordania. Qui opera uno dei nuclei principali della resistenza palestinese: le brigate dei Martiri di al-Aqsa, il braccio armato del partito di Fatah. Ed è ancora qui che, il 2 dicembre scorso, è stato ucciso un dodicenne, colpevole di aver tirato un sasso contro un mezzo blindato dei soldati israeliani. Il ragazzino, dopo essere stato colpito da un cecchino, si è accasciato a terra. Un suo amico, per provare a salvarlo, lo ha trascinato dietro un’auto, ma non c’è stato più niente da fare. Centinaia di uomini si sono radunati in uno spiazzo, in un circolo sportivo. È qui che si celebrano i funerali, ormai quotidiani, dei cosiddetti “martiri” di Jenin.
Ci sono solo uomini. Nell’Islam, durante questa fase del funerale, le donne non sono ammesse perché potrebbero piangere e, tra i musulmani, mostrarsi deboli è segno di poca fiducia in Dio; i loro cari ora sono in paradiso e non ci deve essere dolore in questo.
Gli uomini fumano, discutono. Dei bambini distribuiscono acqua e tè. Sulle nostre teste vola un drone: «È un suicide drone, – ci spiega un signore – sono carichi di esplosivo e si lanciano sui bersagli. Lo vedi? Non ci fanno nemmeno onorare i nostri morti. Ma almeno qui, un corpo lo abbiamo. Questa tortura psicologica di non restituirci i figli, e usarli per prenderne gli organi, è un atto barbarico».
L’uomo con cui parliamo è convinto che la pratica non sia mai finita. «Ne sono sicuro e te lo dico perché ho le prove. A volte, ci ridanno i corpi a patto che manteniamo la cassa sigillata. Molti dei parenti decidono di aprirle e, quasi sempre, troviamo delle cuciture sui corpi dei cadaveri. Se chiedi spiegazioni, ti dicono che è stata fatta un’autopsia. Ma, quale autopsia? Per cercare cosa? Se non sono stati uccisi dai loro proiettili, sono stati ammazzati di botte. A cosa serve l’autopsia? Certo che prendono gli organi, lo hanno sempre fatto. Devi però anche sapere che i nostri ragazzi, quelli che vanno a combattere, sono preparati anche a questo. Vedi, questa resistenza è molto più che dare la propria vita per una causa. Molti sanno che anche la loro carne non avrà pace, nemmeno dopo la morte. A questo sono pronti i nostri martiri. Questo è quello che Israele non ha, questo è il motivo per cui non possono vincere e non possono piegarci. Noi siamo disposti a dare tutto affinché, le prossime generazioni, possano vivere liberamente»
Durante il funerale incontriamo Iyad Azmi: è uno dei tanti uomini che è venuto a portare le proprie condoglianze ai parenti del ragazzino ucciso. Avevamo già incontrato Iyad, in occasione della scomparsa di suo fratello, solo una settimana prima. Anche lui è una delle persone che non ha potuto dare una sepoltura a qualcuno: «Mio figlio è morto in carcere due anni fa. Abbiamo fatto richiesta di riaverlo, ma si trova ancora in Israele». Un uomo seduto accanto a lui aggiunge: «C’è anche mio figlio lì, sono morti insieme. Anche a me non l’hanno ancora restituito».
Ma i conti non tornano
Allora decidiamo di tornare dove questa storia è cominciata: negli uffici della Jlac a Ramallah. Qui incontro Salwa Hammad, una delle responsabili del centro, che ci racconta: «Noi, tra le tante attività, offriamo assistenza legale soprattutto a quelle persone che vivono accanto alle colonie, gente che ha ricevuto una lettera di sgombero con minaccia di demolizione della loro proprietà. Le famiglie che rischiano questo sono davvero tante. In realtà, sappiamo di non poter vincere contro Israele. Il nostro scopo è quello di prendere tempo, così facendo, queste persone possono continuare a vivere nelle loro case, in attesa che qualcosa cambi. L’altra nostra battaglia è quella, legale, per la restituzione dei corpi». Poi ci mostra gli schedari pieni di documenti e foto.
«Al momento abbiamo preso in carico 431 casi. Sono 431 famiglie che aspettano la salma di un proprio parente. Di questi, 175 sono in piedi dal 2015, altri ancora sono nelle mani di Israele anche dal 1967. Tutti questi numeri non tengono conto, ancora, delle migliaia di morti a Gaza. Ora, a causa della guerra, la Corte Suprema dove presentiamo i casi è chiusa; quindi, tutta la nostra attività è congelata».
Sulla questione del prelevamento degli organi dei palestinesi, osserva: «Sappiamo che lo hanno fatto per decenni. Al momento non c’è nessuna prova che questo stia accadendo ancora, o che sia accaduto dopo il 2000. Anche se, i numeri non tornano molto».
Già, i numeri. Perché, se da un lato Israele ha la più grande “skin bank” del pianeta, dall’altro, ha uno dei più bassi tassi di donatori di organi del mondo occidentale. Come al solito, soprattutto quando si tratta degli affari Israeliani, è molto difficile trovare statistiche certe e, spesso, quelle esistenti sono molto fuorvianti.
In questo caso, le cifre israeliane parlano del 60 per cento di donatori attivi. Andando a scavare nel dettaglio però, quel 60 per cento sarebbe solo d’accordo a donare gli organi, ma di fatto non lo fa. La percentuale si abbassa ulteriormente considerando chi, per motivi religiosi, non donerà mai, portando così la cifra al 48 per cento di “potenziali” donatori. I numeri continuano a scendere fino a una statistica del 2019, quando il Network of Organ Sharing dell’Unione europea affermò che solo il 3 per cento della popolazione israeliana ha dato il suo consenso alla donazione degli organi.
La sparizione di diversi corpi, subito dopo i bombardamenti a Gaza, ha allertato diverse associazioni umanitarie. Un primo sospetto è stato sollevato dall’organizzazione Euro Med Human Rights Monitor. L’Ong ha affermato di avere documenti che mostrano la confisca, da parte di Israele, di decine di cadaveri dall’ospedale di Al-Shifa, bombardato di recente nella Striscia. Partendo da queste dichiarazioni e sospetti, cominceranno nuove indagini per far luce su quello che potrebbe essere, l’ennesimo, orribile capitolo di questa guerra.
Su una delle pubblicazioni della Jlac che raccontano queste storie, intitolato “Il calore dei nostri figli”, c’è una citazione di Ana Messuti, docente di filosofia del diritto: «È piuttosto ipocrita sostenere che le esumazioni riaprono le ferite del passato, perché è impossibile riaprire una ferita che non è mai stata chiusa».