Guerra Israele-Hamas, il grande colpevole: tutte le responsabilità del premier Benjamin Netanyahu
Ha ignorato gli avvertimenti dell’intelligence. Ha promosso politiche divisive in patria. E discriminatorie verso i palestinesi. Così il massacro compiuto dal gruppo terroristico e la violenta reazione contro Gaza segnano la fine della dottrina e della carriera del premier più longevo dello Stato ebraico
Il pogrom organizzato il 7 ottobre da Hamas – il gruppo paramilitare che controlla la Striscia di Gaza – contro i raver, le donne e le comunità dei villaggi israeliani, ha preso alla sprovvista e travolto l’esercito più potente del Medio Oriente, in quella che verrà ricordata come la giornata più sanguinosa degli ultimi 75 anni per Israele. Dopo aver fatto irruzione lungo il confine, invaso 80 chilometri quadrati di territorio, preso oltre 150 ostaggi e ucciso o ferito più di 1.300 persone, Hamas e i suoi alleati hanno annientato il mito della sicurezza israeliana, spiazzando un’intera nazione che ha fatto della sua superiorità militare un dogma fideistico.
Grazie all’uso di droni, i miliziani hanno messo fuori uso le principali torri di sorveglianza e di comunicazione lungo la frontiera con la striscia, creando una serie di punti ciechi per i militari israeliani. Con gli esplosivi e i trattori, Hamas ha spalancato le recinzioni aprendo oltre una dozzina di passaggi per consentire a una prima ondata composta da 200 combattenti della brigata altamente addestrata “Nukhba” di entrare, seguiti da una seconda ondata di 1.800 uomini armati. In sella alle motociclette e a bordo dei pick-up, gli assalitori sono penetrati in Israele, hanno preso il controllo di almeno otto basi militari e compiuto una vera e propria razzia sui civili in oltre 15 tra villaggi e città.
I piani d’attacco di Hamas, i filmati e le successive interviste con i funzionari della sicurezza hanno messo in luce il dettagliato livello di conoscenza del gruppo riguardo all’assetto operativo degli israeliani: erano informati sulle posizioni delle specifiche unità militari al momento dell’attacco e hanno addirittura previsto il tempo che avrebbero impiegato ad arrivare i rinforzi. In diverse basi, i miliziani sapevano dove si trovavano i server di comunicazione e li hanno distrutti. Il risultato dell’operazione è stato un numero sbalorditivo di atrocità e massacri commessi, in quella che il presidente israeliano, Isaac Herzog, ha definito la peggiore strage di ebrei in un singolo giorno dall’Olocausto. In pochi istanti l’aura di invincibilità costruita nei decenni da Israele è andata in frantumi e la rappresaglia su Gaza ha ucciso oltre 1.900 palestinesi in una sola settimana; un livello di ferocia mai visto prima nella striscia.
Il crollo di ogni difesa
Un documento di pianificazione di Hamas, ritrovato dai soccorritori israeliani dentro un villaggio, dimostra che i miliziani erano organizzati in unità, ciascuna delle quali aveva obiettivi e piani di attacco ben definiti. Un plotone era diviso tra navigatori, sabotatori e autisti designati – oltre a unità d’artiglieria alle spalle per fornire copertura durante gli assalti. Ad alcune unità era stato assegnato il compito specifico di catturare israeliani per i futuri scambi di prigionieri con Israele. Altri assalitori invece dovevano controllare i principali snodi stradali per tendere imboscate ai rinforzi israeliani. Lo stesso documento, datato ottobre 2022, sembra confermare che l’operazione era già stata pianificata da almeno un anno.
Il fatto che Hamas sia riuscito a mantenere questa segretezza è senza dubbio il più grave fallimento delle agenzie di intelligence israeliane – il Mossad, lo Shin Bet, e il direttorato dell’Intelligence Militare (Aman) – ritenute tra le più efficaci al mondo per il loro alto stato di allerta – nel 2018 il Mossad fu in grado di localizzare e rubare sotto il naso degli Ayatollah gli archivi nucleari dell’Iran e riportarli in Israele la notte stessa. Il Paese investe miliardi nel tracciare ogni singolo movimento di ogni presunto terrorista a Gaza, ma in qualche modo non si sono accorti dell’operazione in corso.
Una ragione è dovuta al fatto che Israele non mantiene una presenza fisica e dei propri agenti a Gaza dal suo piano di disimpegno unilaterale dall’exclave nel 2005. La maggior parte delle attività di tracciamento avvengono grazie alla cosiddetta intelligence dei segnali. Hamas avrebbe dunque evitato l’uso di qualsiasi dispositivo elettronico per comunicare i suoi piani d’attacco. In un’intervista alla tv araba, il leader di Hamas Ali Baraka ha fatto sapere come l’organizzazione sia riuscita a mantenere il piano altamente compartimentalizzato tra i loro ranghi, riferendo ai miliziani solo piccoli frammenti del complesso puzzle dell’operazione per evitare fughe di notizie. «Gli abbiamo fatto pensare che eravamo occupati a gestire Gaza e che la nostra attenzione era rivolta ai 2,5 milioni di palestinesi (a Gaza), rinunciando del tutto alla Resistenza. Ma nel frattempo, ci preparavamo al grande attacco». Tutto ciò dimostra un’impressionante disciplina operativa da parte di Hamas, e richiederà a Israele di ripensare il suo apparato dei servizi una volta finita la guerra.
Il secondo fallimento è rappresentato dal cedimento delle barriere fisiche israeliane. Negli anni, Israele ha investito miliardi di dollari nelle sue recinzioni – sopra e sottoterra – con l’ausilio di sensori sofisticati, telecamere, radar e armi radiocomandate in grado di far desistere chiunque dal tentativo di infiltrarsi nel Paese. Ciononostante, Hamas ha dimostrato che queste misure di difesa non solo non erano impenetrabili, ma erano poco più che un intralcio all’operazione Tempesta al-Aqsa. La breccia della recinzione appare tuttavia come il risultato di un misto di tempismo e tattiche sofisticate. Hamas ha sfruttato le ultime settimane per organizzare proteste lungo il confine allo scopo di normalizzare la presenza di persone lungo un’area solitamente riservata. L’attacco nel giorno di shabbat, durante la festività dello Yukkot, gli ha offerto un ulteriore vantaggio. Quando Hamas ha poi utilizzato i droni per sganciare bombe sulle torri di comunicazioni, le Forze di difesa israeliane hanno perso il controllo della linea di comando e questo ha portato al ritardo nel dispiegamento dei militari, il terzo e definitivo fallimento nella strategia difensiva di Israele.
Le forze armate hanno impiegato diverse ore per tornare sul piede di guerra. Durante il giorno dell’invasione molti si chiedevano perché non ci fossero elicotteri d’assalto Apache sopra il confine a sparare missili Hellfire su chiunque osava attraversarlo. Ma, con i quartier generali delle IDF sotto attacco, era quasi impossibile per il capo di stato maggiore della Difesa a Tel Aviv osservare il dispiegarsi degli eventi e capire come rispondere in quelle cruciali prime ore dell’attacco; motivo per cui ora circolano sui social israeliani innumerevoli storie di audaci riservisti che dopo aver sentito gli spari hanno afferrato un’arma e si sono diretti Sud per andare di casa in casa a salvare vite, completamente soli, senza alcun supporto aereo; il primo annuncio dello sgombero dei kibbutz occupati dai terroristi lungo il confine da parte dell’esercito è poi arrivato – con qualche grado di certezza – solo nella mattinata di lunedì. Forse, il più grande fallimento di Israele, è stato proprio quello di aver sovrastimato la propria forza, sottostimando quella del suo nemico.
A peggiorare le cose, Netanyahu sarebbe stato avvertito dall’intelligence egiziana di un imminente attacco di Hamas, ma avrebbe declassato l’avviso a “fake news”, un esempio flagrante del suo atteggiamento lassista verso la situazione a Gaza. Per quasi vent’anni, dal suo ritiro dalla Striscia, Netanyahu si è attenuto a una politica di contenimento verso i leader di Hamas a Gaza, pensando di riuscire a tenere a bada l’organizzazione terroristica con sporadici confronti militari e incentivi economici, certo che Hamas fosse scoraggiato dal lanciare un grande attacco: non ne avrebbero avuto il coraggio, sarebbero stati schiacciati, perché i palestinesi si sarebbero rivoltati contro di loro per aver causato un’altra guerra. Israele concede 19mila permessi di lavoro al giorno ai cittadini di Gaza, che lavorano nell’edilizia, nell’agricoltura o nel settore dei servizi in Cisgiordania, dove la paga è dieci volte più alta, beneficiandone a sua volta attraverso i proventi fiscali. Si trattava dunque di un cessate il fuoco basato su una sorta di vivi e lascia vivere. Ma questa strategia prevedeva che Hamas fosse un interlocutore razionale. Un errore fatale.
“Un morto che cammina”
L’esito di questa guerra definirà il retaggio del primo ministro Benjamin Netanyahu, anche se molti lo ritengono politicamente finito come esperto di sicurezza. Dopo essere stato primo ministro dal 1996 al 1999 e ancora, come leader del partito di destra Likud dal 2009 al 2021, riaffacciandosi per un terzo mandato alla fine del 2022, il suo governo ha affrontato diverse fasi del conflitto con Hamas e si è sempre rifiutato di entrare a Gaza, uccidere i suoi leader e smantellare il gruppo. E se ora Israele si è fatto trascinare dentro Gaza, è un risultato diretto delle decisioni strategiche compiute da Netanyahu in passato. Come riferito da un colonnello dell’esercito “Tsahal” al noto giornalista investigativo Seymour Hersh, Netanyahu «è finito. È un morto che cammina. Resterà al potere finché dureranno le sparatorie, forse per un altro paio di mesi». «Bibi si è sempre opposto agli accordi di Oslo del 1993 offrendo inizialmente all’Autorità nazionale palestinese il controllo nominale sia sulla Cisgiordania che sulla Striscia di Gaza. Quando è tornato al potere nel 2009, Bibi ha scelto di sostenere Hamas» – come alternativa all’Anp – «mettendogli a disposizione fondi e rafforzando la loro posizione a Gaza».
«Quanto accaduto questa settimana è l’effetto della dottrina Bibi, secondo cui puoi creare un Frankenstein e averne il controllo», ha aggiunto il colonnello. L’attacco di Hamas è un risultato diretto della decisione presa da Netanyahu, a seguito della protesta dei vertici militari contro la riforma della giustizia, «di consentire a un gruppo di coloni ortodossi di celebrare il Sukkot in Cisgiordania». Il Sukkot (festa delle capanne) è una festività annuale che si tiene a inizio autunno per commemorare il viaggio ancestrale degli ebrei nelle profondità del deserto. Dura una settimana e viene celebrato con la costruzione di una struttura esterna temporanea, la “sukkah”, una capanna in cui tutti i partecipanti condividono il cibo che mangiavano i loro antenati per stabilire in tal modo una connessione viscerale con la stagione di raccolta.
Ma la sua richiesta è giunta in un momento di forte tensione nell’area a seguito di un altro incidente avvenuto il 6 ottobre, dopo che alcuni coloni ebrei hanno fatto irruzione in un villaggio uccidendo un 19enne palestinese. La morte del giovane è stato solo l’ultimo di una serie di episodi violenti tra israeliani e palestinesi che hanno provocato la morte di quasi 200 palestinesi quest’anno – il numero più alto dalla seconda intifada. La celebrazione del Sukkot, organizzata nei pressi del villaggio palestinese di Huwara, ha dunque richiesto un livello di sicurezza straordinario, e le autorità militari israeliane locali, con l’approvazione di Netanyahu, hanno ordinato a due dei tre battaglioni dell’esercito, ciascuno composto da 800 soldati che proteggevano il confine con Gaza di trasferirsi in prossimità dell’evento, lasciando così solo 800 soldati a proteggere i 51 chilometri di confine tra la Striscia di Gaza e il sud di Israele. Per questo i cittadini israeliani presenti in quell’area sono rimasti senza una presenza militare per 10-12 ore e hanno dovuto difendersi da soli. Ed è questo il motivo per cui la fine di Netanyahu sembra essere segnata.
Negli ultimi nove mesi, il governo di ultra-destra di Bibi ha attraversato una crisi senza precedenti a causa delle riforme giudiziarie proposte, con centinaia di migliaia di israeliani che protestavano in strada ogni settimana. Molti riservisti hanno addirittura minacciato di non servire l’esercito, restituendo l’immagine complessiva di un Paese debole e diviso – da cui Hamas ha tratto pieno vantaggio.
Netanyahu è stato il primo ministro più longevo nella storia di Israele, ma la sua carriera sarà per sempre oscurata dai fatti efferati avvenuti sotto la sua guida. È stato lui l’ideatore del concetto strategico secondo cui la minaccia di Hamas poteva essere contenuta erigendo barriere hi-tech senza cercare una soluzione a lungo termine e senza migliorare le condizioni di vita a Gaza. Quell’idea è fallita miseramente il 7 ottobre.