Guerra Israele-Hamas: lo spettro del genocidio dei palestinesi nella striscia di Gaza
Oltre 11mila morti in un mese, un terzo dei quali minorenni. La violenta reazione di Israele agli attentati di Hamas del 7 ottobre ha devastato il territorio costiero palestinese. Le piazze, i social e persino l’Onu denunciano massacri indiscriminati e in molti già chiedono un’indagine internazionale
Da Londra a Giacarta, passando per Dublino e Città del Messico, nelle ultime settimane centinaia di migliaia di manifestanti sono scesi in strada per protestare contro i bombardamenti israeliani di Gaza. Tra gli slogan ripetuti durante le manifestazioni, c’è n’è uno che sta diventando sempre più presente: quello di porre fine al genocidio dei palestinesi.
L’accusa non è nuova, ma finora era confinata ai margini del dibattito pubblico. Dopo l’attacco sferrato da Hamas il 7 ottobre scorso e la risposta senza precedenti di Israele ha trovato spazio come mai era avvenuto prima.
La grande vendetta
Nelle scorse settimane, un gruppo di esperti Onu sui diritti umani ha chiesto un cessate il fuoco per «prevenire un genocidio», autorevoli accademici hanno sottoscritto appelli per fermare un «potenziale genocidio», i governi di Paesi come il Sud Africa, la Colombia e il Brasile hanno accusato Israele di aver compiuto un «genocidio» e altri hanno messo in guardia dal rischio che questo possa avvenire.
Lo Stato ebraico ha risposto con sdegno all’accusa, rivolgendola a sua volta nei confronti di Hamas. «Israele è in guerra con l’organizzazione terroristica genocida Hamas», ha detto il 26 ottobre scorso Gilad Erdan, rappresentante permanente dello Stato ebraico presso le Nazioni Unite, dopo aver specificato che Israele «non è in guerra con i palestinesi». Anche gli Stati Uniti si sono espressi sulla questione. «Ho sentito dire in giro la parola “genocidio”. Ma è Hamas ad avere in realtà intenzioni genocide contro il popolo di Israele. Vorrebbero cancellarlo dalla mappa», ha sottolineato il portavoce del Consiglio di sicurezza nazionale, John Kirby.
Il 7 ottobre scorso è stato, nelle parole di Joe Biden, il «giorno più sanguinoso per gli ebrei dall’Olocausto». Circa 1.200 israeliani, la maggior parte dei quali civili, hanno perso la vita nell’attacco lanciato da Hamas e altri gruppi palestinesi, tornati nella Striscia di Gaza con oltre 240 ostaggi. La notizia delle atrocità, riprese in alcuni casi dalle telecamere indossate dagli stessi miliziani, ha scosso la società israeliana.
«Un giorno maledetto», lo ha definito Benjamin Netanyahu, che ha promesso una «grande vendetta». Lunedì 9 ottobre il ministro della Difesa Yoav Galant ha dichiarato di aver »ordinato un assedio completo alla striscia di Gaza». «Non ci sarà elettricità, né cibo, né carburante, è tutto chiuso», ha detto l’ex capo di stato maggiore, per poi aggiungere: «stiamo combattendo animali umani e ci comportiamo di conseguenza». Nelle settimane successive, altri ministri ed esponenti dell’esercito israeliano hanno descritto a più riprese i nemici come «animali» o «selvaggi». «Gli animali umani devono essere trattati come tali. Non ci sarà né elettricità né acqua, ci sarà solo distruzione. Volevate l’inferno, avrete l’inferno», ha detto il 10 ottobre maggior generale Ghassan Alian, a capo del Coordinamento delle attività governative israeliane nei territori (Cogat), l’ufficio del ministero della Difesa preposto a implementare le politiche del governo israeliano rispetto ai territori occupati.
«C’è un’intera nazione là fuori che è responsabile», ha affermato il presidente israeliano Isaac Herzog durante una conferenza stampa il 13 ottobre, dopo l’ordine delle autorità israeliane di evacuare la parte settentrionale della Striscia. «Questa retorica secondo la quale i civili non sono consapevoli, non sono coinvolti non è vera. Non è assolutamente vera. Avrebbero potuto insorgere. Avrebbero potuto combattere contro quel regime malvagio che ha preso il controllo di Gaza con un colpo di stato».
Questione di definizione
Parole che hanno allarmato molti esperti e addetti ai lavori. «Molte dichiarazioni di politici e generali israeliani mostrano l’intenzione, uno degli aspetti più difficili da dimostrare nei genocidi», ha accusato Omer Bartov, considerato uno dei massimi esponenti della storiografia sull’Olocausto e sui genocidi. Insieme a quasi 800 altri accademici ed esperti, ha sottoscritto una lettera per «lanciare l’allarme sulla possibilità che le forze israeliane perpetrino il crimine di genocidio contro i palestinesi nella Striscia di Gaza».
Un appello che non viene fatto «alla leggera»: «Siamo consapevoli del peso di quest’accusa ma la gravità ma la gravità della situazione attuale la richiede». A preoccupare particolarmente i firmatari è «il linguaggio utilizzato dalle figure politiche e militari israeliane» che «sembra riprodurre la retorica e le espressioni associate al genocidio e all’incitamento al genocidio».
Il genocidio, considerato da molti il peggiore tra i crimini possibili, viene definito dalle Nazioni Unite come «l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religiose, come tale». La definizione contenuta nella Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio (1948) non è limitata ai casi di uccisione dei membri del gruppo, ma anche alle «lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo», al «fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale», a «misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo» e al «trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro». In base alla Convenzione, non è punibile solo il genocidio in sé ma anche il solo «incitamento diretto e pubblico a commettere genocidio».
Il più noto caso di genocidio, che ha ispirato la stessa Convenzione del 1948, è quello commesso contro gli ebrei durante la Seconda guerra mondiale, in cui la Germania nazista sterminò 6 milioni di persone. Un altro genocidio più recente è quello subito dai tutsi in Ruanda, dove nel 1994 le milizie hutu sterminarono almeno 490mila persone. Per altri massacri la definizione di genocidio è meno univoca.
È il caso degli eccidi compiuti in Darfur dalle forze sudanesi tra il 2003 e il 2005, in cui persero la vita circa 200.000 persone. Secondo gli Stati Uniti si trattò di genocidio mentre, secondo la Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite, furono commessi crimini di guerra e crimini contro l’umanità ma per quanto riguarda il genocidio è sembrato mancare «l’elemento cruciale dell’intenzione genocida, almeno per quanto riguarda le autorità governative». I crimini accertati, ha precisato la commissione, sono comunque da considerarsi «non meno gravi e atroci del genocidio».
Nel caso della guerra in Ucraina, gli Stati Uniti hanno caratterizzato le azioni russe come «genocide» a seguito del massacro di Bucha e i bombardamenti di Mariupol. In quella circostanza le autorità russe avevano accusato le forze ucraine di usare “scudi umani”.
La carneficina
Ben tre organizzazioni palestinesi per i diritti umani hanno già chiesto alla Corte penale internazionale di indagare Israele per genocidio. Secondo quanto dichiarato nelle scorse settimane dal procuratore, Karim Khan, la giurisdizione della Cpi si estende anche ai crimini commessi da miliziani di Hamas in Israele o dalle forze israeliane nella Striscia di Gaza, anche se Tel Aviv non ha mai ratificato il trattato istitutivo della Corte.
Diversi tra gli esperti che hanno lanciato l’allarme sulla situazione nella Striscia di Gaza non ritengono che il genocidio sia già in corso. «La mia più grande preoccupazione guardando lo svolgersi della guerra tra Israele e Gaza è che ci sia un’intenzione genocida, che può facilmente trasformarsi in un’azione genocida», ha scritto lo storico israeliano Bartov, in un articolo per il New York Times. Di diverso avviso Craig Mokhiber, ex direttore dell’ufficio di New York dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani (Ohchr) che si è dimesso dal suo incarico per protestare contro il «genocidio» subito dai palestinesi. «Quando si ha un caso così chiaro è necessario applicare il termine “genocidio”», ha detto in un’intervista a Msnbc.
Al di là delle definizioni, la sempre peggiore crisi umanitaria a Gaza rischia comunque di aprire una voragine tra i paesi occidentali e il resto del mondo. Il timore di diversi diplomatici occidentali è che il sostegno all’offensiva israeliana finisca per danneggiare gli sforzi per contrastare la Russia e l’invasione dell’Ucraina, rendendo sempre più difficile trovare sostegno tra i paesi al di fuori di G7 e Unione europea. L’ultimo avvertimento è stato recapitato alla Casa bianca dai diplomatici statunitensi nel mondo arabo. Secondo un cablogramma citato da Cnn, la campagna israeliana farà «perdere» a Washington il consenso dell’opinione pubblica dei paesi arabi «per una generazione». Il cablo, inviato la settimana scorsa dall’ambasciata americana in Oman, afferma che il sostegno degli Stati Uniti a Israele viene visto come elemento di «colpevolezza materiale e morale in quelli che considerano possibili crimini di guerra».
Finora a Gaza più di 11mila i palestinesi hanno perso la vita nei raid israeliani, oltre un terzo dei quali bambini. Si tratta della campagna più sanguinosa dall’inizio del blocco imposto ormai 16 anni fa sull’enclave palestinese. I massicci bombardamenti lanciati con l’obiettivo di eliminare gli uomini di Hamas, che controlla la striscia dal 2007, non hanno risparmiato case, scuole, ospedali e strutture delle Nazioni Unite. Dall’inizio dei raid, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha registrato almeno 137 attacchi contro strutture sanitarie in cui sono morte 521 persone, tra cui 16 operatori sanitari in servizio.
Molte vittime si sono registrate nella parte meridionale della striscia di Gaza, dove centinaia di migliaia di civili si sono spostati a seguito dell’ordine diramato prima dell’ingresso delle forze terrestri. «Quando le vie di evacuazione vengono bombardate, quando le persone vengono coinvolte nelle ostilità a nord così come a sud, quando mancano gli elementi essenziali per sopravvivere e quando non ci sono garanzie per fare ritorno, alle persone non rimangono altro che scelte impossibili», ha dichiarato Lynn Hastings, coordinatrice umanitaria delle Nazioni Unite per i Territori palestinesi occupati. «A Gaza nessun posto è al sicuro».