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La guerra dei numeri: il bilancio delle vittime nella Striscia di Gaza è stato manipolato?

Immagine di copertina
Manifestazione a Roma contro il genocidio del popolo palestinese. Credit: Alessandro Serranò / AGF

Un nuovo rapporto del think tank britannico conservatore Henry Jackson Society dice di sì, segnalando una serie di errori nella raccolta dei dati da parte del ministero della Salute controllato da Hamas e dando ragione a Tel Aviv. Ma il problema resta la definizione di combattente

I dati sul numero delle vittime della guerra di Israele contro Hamas nella Striscia di Gaza potrebbero essere manipolati? Tel Aviv afferma da sempre di sì, ma ora un nuovo rapporto pubblicato da un think tank britannico, spesso criticato per le sue posizioni di destra, neoconservatrici e persino accusato in qualche caso di islamofobia, prova a dare ragione al governo dello Stato ebraico.

Secondo i dati diffusi dal ministero della Salute di Gaza controllato da Hamas e citati anche dalle agenzie delle Nazioni Unite, sono oltre 45 mila i morti e più di 107 mila i feriti nella Striscia dall’inizio della guerra, in larga parte donne e minori. Ma per il rapporto “Un conteggio discutibile”, pubblicato dalla no-profit britannica Henry Jackson Society, questi numeri comprendono anche “vittime di morte naturale, decessi avvenuti prima dell’inizio del conflitto e persone uccise da Hamas”, mentre non “fanno distinzione tra civili e combattenti” e “sovrastimano il numero di donne e bambini uccisi”.

L’analisi si basa sui dati aperti forniti dal ministero della Striscia su Telegram, che periodicamente aggiorna il numero delle vittime e fornisce le liste dei deceduti identificati con nome, cognome, età, genere e codice di registrazione all’anagrafe locale.

Il bilancio delle vittime

Il conflitto in corso in Medio Oriente dal 7 ottobre 2023 ha coinvolto almeno sette Paesi e provocato oltre 50mila morti tra Israele, i Territori palestinesi, il Libano (più di quattromila vittime), la Siria, lo Yemen, l’Iraq e l’Iran.

Gli attentati commessi l’anno scorso da Hamas e dalla Jihad islamica nello Stato ebraico, secondo il governo Tel Aviv, sono costati la vita a 1.195 persone, compresi 815 civili, e la libertà a 251 ostaggi, di cui almeno 96 tuttora prigionieri (ma solo una sessantina ancora vivi). Nella Striscia poi sono caduti 386 soldati israeliani su 818 vittime militari totali registrate dalla ripresa dei combattimenti nei Territori palestinesi, in Libano e in Israele.

L’ultimo bilancio diramato dal ministero della Salute di Gaza parla invece di almeno 45.059 persone uccise e di 107.041 ferite nella Striscia dall’inizio della guerra. Inoltre, secondo una nota pubblicata il 10 dicembre scorso dall’ufficio stampa del governo di Hamas, circa il 44 per cento delle vittime segnalate erano minori.

Numeri presi per buoni anche dalle Nazioni Unite. Secondo un’analisi pubblicata a inizio novembre dall’Alto commissariato Onu per i diritti umani (Ohchr), circa il 70 per cento delle vittime accertate a Gaza tra il novembre 2023 e l’aprile 2024 erano donne e minori, uccisi quasi nell’80 per cento dei casi in edifici residenziali o in altri tipi di alloggio, mostrando da parte di Tel Aviv “un’apparente indifferenza verso la morte dei civili e l’impatto dei mezzi e dei metodi di guerra” sulla popolazione della Striscia.

Israele però contesta queste cifre affermando, nell’ultimo aggiornamento fornito ad agosto scorso dal portavoce delle forze armate (Idf) Daniel Hagari, di aver ucciso “oltre 17mila terroristi”. Proprio da qui comincia l’analisi della Henry Jackson Society.

Le cifre del think tank britannico
“Questo rapporto solleva serie preoccupazioni sul fatto che le cifre del ministero della Salute di Gaza siano state sovrastimate”, ha commentato Andrew Fox, analista specializzato in difesa, disinformazione e Medio Oriente, che ha redatto il rapporto per la no-profit britannica, secondo cui un’istituzione controllata da Hamas non può essere considerata una fonte affidabile.

In primis, secondo la sua analisi, il bilancio totale delle vittime è falsato perché non tiene conto di almeno cinquemila persone che mediamente muoiono ogni anno nella Striscia per cause naturali. Inoltre, il conto dei morti del ministero della Salute di Gaza non farebbe alcuna distinzione tra civili e combattenti.

“I dati alla base delle loro cifre contengono anche vittime di morte naturale, decessi avvenuti prima dell’inizio del conflitto e persone uccise da Hamas; non fanno distinzione tra civili e combattenti e sovrastimano il numero di donne e bambini uccisi”, ha affermato l’autore del rapporto, secondo cui “sono stati scoperti gravi errori nelle liste dei decessi”.

Alcuni pazienti oncologici, ad esempio, sarebbero stati inseriti nelle liste delle persone bisognose di cure dopo essere stati già elencati tra le vittime della guerra. È il caso di Jihad Mahmoud Adeeb Al-Taweel (identificato all’anagrafe locale con il numero: 950130153), inserito il 15 aprile scorso in un elenco di pazienti oncologici perché affetto da un cancro alla laringe, due settimane dopo essere stato dato per deceduto nel conflitto.

Ma la Henry Jackson Society sottolinea anche altri errori statistici contenuti nei bollettini dei morti diramati dal ministero della Salute della Striscia. “Nell’elenco di agosto 2024, 103 vittime sono state contrassegnate come donne, nonostante portassero evidentemente nomi maschili (come ad esempio Mohammed)”, si legge nel rapporto. In altri casi invece un morto di 22 anni è stato registrato come un bambino di quattro, mentre una vittima 31enne è stata identificata come un neonato. Il tutto, secondo la no-profit britannica, al fine di “aumentare artificialmente il numero di donne e bambini tra le vittime”. All’interno delle liste dei morti poi, secondo l’autore del rapporto, sarebbero anche state inserite “persone decedute prima della guerra” e “centinaia di decessi dovuti ad attacchi che poi si sono rivelati essere lanci di razzi a vuoto da parte di fazioni di Gaza” e non attacchi di Israele.

Confrontando poi i dati contenuti nelle liste stilate ad agosto 2024 dal ministero della Striscia, che dall’aprile scorso sono divisi tra decessi registrati dal personale sanitario degli ospedali, fonti di informazione (compresi media e social media) e segnalazioni da parte delle famiglie, Fox sostiene che “la maggior parte delle vittime sono uomini di età compresa tra 15 e 45 anni, contraddicendo le affermazioni secondo cui le popolazioni civili sono prese di mira in modo sproporzionato”. Secondo la Henry Jackson Society, al contrario di come sono elencate dal ministero della Salute di Gaza, le morti segnalate dalle famiglie “suggeriscono che molte vittime classificate come civili potrebbero essere combattenti, una distinzione omessa dai resoconti ufficiali”.

“​​Questo rapporto dimostra che la metodologia di raccolta dei dati utilizzata dal Ministero della Salute (di Gaza, ndr) non è scientificamente valida”, si legge nella relazione, che se la prende poi con i media, assumendo invece per buono il bilancio delle vittime diramato ad agosto dalle forze armate di Israele (Idf).

Le critiche ai media
“I resoconti dei media che sostengono il bilancio totale delle vittime a Gaza causate dalle azioni delle Idf non hanno verificato le cifre citate e non hanno tenuto conto della morte di oltre 17 mila combattenti di Hamas e loro affiliati come parte di tale conteggio”.

Al contrario, secondo la no-profit britannica, dopo il 7 ottobre 2023, “i media di tutto il mondo hanno iniziato a riferire i numeri delle vittime” nella Striscia, “citando spesso le cifre del ministero della Salute di Gaza come se fosse una fonte completamente indipendente e imparziale”. “In realtà”, questo organismo “è sotto il pieno controllo di Hamas (…) dal 2007” e “dato che” l’organizzazione terroristica “è parte diretta della guerra, ciò crea un evidente conflitto di interessi”, ha rimarcato la Henry Jackson Society, che “da febbraio a maggio 2024” ha fatto analizzare i resoconti dei media che citavano queste cifre “da un gruppo di studiosi internazionali”.

Questi ultimi, ha rivelato la no-profit britannica, “hanno esaminato 1.378 articoli dei principali quotidiani e organi di informazione in lingua inglese, in particolare The New York Times, The Washington Post, The Guardian, CNN, BBC, Reuters, The Associated Press e Australian ABC”. “In quattro mesi, l’84 per cento di quelle pubblicazioni non è riuscita a fare una distinzione fondamentale tra il totale dei combattenti morti e le vittime civili”, si legge nel rapporto, secondo cui “solo il 5 per cento delle testate analizzate ha citato i dati diffusi dalle autorità israeliane, mentre il 98 per cento ha citato solo i dati sulle vittime forniti dal ministero della Salute di Gaza controllato da Hamas”.

“Nel 19 per cento dei resoconti esaminati”, prosegue l’analisi, “i numeri forniti dalle istituzioni gestite da Hamas sono stati utilizzati senza citare alcuna fonte, il che suggerisce che tali cifre erano indiscutibili”. Inoltre, secondo il rapporto, “meno di 1 su 50 articoli ha sottolineato l’impossibilità di verificare in maniera indipendente questi dati”. “Sorprendentemente”, ha invece rimarcato la no-profit britannica, “la credibilità delle statistiche israeliane è stata messa in dubbio dalla metà dei pochi articoli che le hanno citate”.

“I media globali si sono comprensibilmente concentrati sul numero di morti a Gaza come lente di critica delle operazioni israeliane. Molti segnalano come il ministero della Salute di Gaza sia controllato da Hamas, ma pochi danno lo stesso livello di attenzione ai resoconti dell’Idf sul numero di combattenti uccisi come parte del totale complessivo delle vittime. Né esaminano come dovrebbero la metodologia, la cronaca o il contenuto delle liste delle vittime”, conclude il rapporto che riconosce comunque come “un bilancio definitivo dei morti” sia “impossibile, a causa della mancanza di trasparenza da parte del ministero della Salute di Gaza, della generale carenza di accesso al Registro anagrafico palestinese e delle sfide nel conteggio dei miliziani uccisi in combattimento”.

Questione di semantica?
Come TPI aveva già tentato di spiegare, al di là degli errori statistici e delle difficoltà di raccogliere dati e accertare decessi, identificando le vittime in un territorio in cui il 90 per cento della popolazione è stata più volte sfollata e il 59 per cento degli edifici è stato danneggiato o distrutto, la discrepanza tra le cifre diramate dal governo locale controllato da Hamas e quelle divulgate dalle autorità israeliane può avere a che fare proprio con la definizione di “combattente”.

Secondo fonti militari in servizio a Gaza citate dal quotidiano israeliano Haaretz, “in pratica, un terrorista è chiunque sia stato ucciso dopo essere entrato nella zona di combattimento dell’Idf”. D’altra parte, ha spiegato un’altra fonte, “non ci mettiamo a inventariare i corpi: nessuno può determinare con certezza chi sia un terrorista”. Così nel conto dei morti per sbaglio possono finirci anche più di un centinaio di giornalisti, oltre 300 operatori umanitari e quasi un migliaio di dipendenti del personale sanitario. Secondo i vertici politici e delle forze armate di Israele, non si tratta certo di uccisioni intenzionali. Ma come spiegò ad aprile il premier Benjamin Netanyahu dopo la strage di sette operatori umanitari della no-profit statunitense World Central Kitchen, “succede in guerra”.

Questo atteggiamento, insieme all’uso dell’intelligenza artificiale per identificare obiettivi di basso profilo, senza adeguate verifiche dell’intelligence e rinunciando a ricorrere a munizioni di precisione, ha accresciuto il numero di vittime collaterali. Ma per la no-profit britannica non è un problema. 

“Il diritto umanitario internazionale non richiede che non venga fatto alcun danno ai civili. Piuttosto, richiede che le parti in guerra facciano del loro meglio per mitigare i danni ai civili”, spiega infatti il rapporto della Henry Jackson Society, rispondendo apparentemente sia alle preoccupazioni della Corte Internazionale di Giustizia dell’Onu che alle motivazioni del mandato di arresto emesso nei confronti del premier israeliano Benjamin Netanyahu per crimini di guerra e contro l’umanità dalla Corte Penale Internazionale de L’Aja. “Come affermano spesso le Nazioni Unite: ‘Anche la guerra ha delle regole’. Quando una parte in conflitto ignora le regole, le conseguenze non condannano l’altra parte o le impediscono di proseguire la guerra”.

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