Ostaggi, soldati ed ex militari denunciano: “Il 7 ottobre le truppe di Israele spararono anche contro i civili sequestrati da Hamas”
Ufficialmente le Idf hanno sempre respinto l'accusa di aver attivato la cosiddetta "Direttiva Annibale", che autorizza i soldati a sparare ai nemici che tengono in ostaggio i commilitoni anche a rischio della vita dei sequestrati, ma le testimonianze di quel giorno raccontano un'altra storia
Durante gli attentati del 7 ottobre le truppe di Israele hanno sparato anche contro i civili sequestrati da Hamas e dalla Jihad Islamica pur di colpire i miliziani dei gruppi terroristici palestinesi. Ufficialmente le Idf hanno sempre respinto quest’accusa, parlando di incidenti inevitabili nel caos del momento, ma le testimonianze dei parenti delle vittime, degli ostaggi, dei soldati e degli ex militari raccontano un’altra storia.
Neomit Dekel-Chen viveva a Nir Oz da trent’anni ed era nel kibbutz quando lo scorso 7 ottobre Hamas cominciò il pogrom che porterà alla morte di quasi 1.200 persone in Israele. Rapita con altri ostaggi, la 63enne fu fatta a salire su una golf cart: “Continuavano a guidare verso Gaza con noi dietro, quando comparve un elicottero dell’esercito”, ha ricordato al quotidiano Yedioth Ahronot. “Poi l’elicottero ha sparato ai terroristi: all’autista e agli altri. Tutti urlavano, i terroristi erano stati uccisi e noi eravamo vivi, tranne una donna morta tra le braccia di sua figlia”. Era la sua amica Efrat Katz.
Sei mesi dopo, un’inchiesta dell’Aeronautica militare israeliana riconobbe che, probabilmente, la donna era stata uccisa da un elicottero che aveva preso di mira i miliziani. L’inchiesta ufficiale accertò che non era possibile distinguere gli ostaggi dai terroristi. Lo stesso comandante dell’Aviazione, il generale Tomer Bar, ribadì però che “l’equipaggio dell’elicottero” aveva “agito rispettando gli ordini, in una complessa realtà di guerra”.
I militari israeliani confermarono anche che non si trattò di un caso isolato, anzi. In un’altra occasione infatti, sempre quel 7 ottobre, alle truppe fu ordinato di sparare su un’abitazione, nonostante la presenza di civili tenuti in ostaggio all’interno. Un episiodo avvenuto nel kibbutz Be’eri, dove gli attentati di Hamas e della Jihad Islamica costarono la vita a 101 civili.
Dopo un lungo scontro a fuoco contro una quarantina di miliziani di Hamas che avevano sequestrato 15 persone, un carro armato israeliano ricevette l’ordine di aprire il fuoco su una casa, diventata poi famosa. Era la “Casa di Pessi Cohen”, uno degli ostaggi rimasti uccisi il 7 ottobre nel kibbutz, vicino al confine con la Striscia di Gaza.
“Sappiamo che almeno un ostaggio è stato ucciso da uno di quei proiettili”, ha raccontato all’emittente australian Abc uno dei familiari delle vittime, Omri Shifroni, che nell’attentato ha perso la zia Ayala e i pronipot Liel e Yanai. “Ma ce ne sono altri che ancora non conosciamo e potremmo non sapere mai cosa li abbia davvero uccisi”.
A luglio però i militari hanno scagionato le truppe da ogni accusa, affermando che il carro armato aveva sparato “nei pressi” della casa dopo il fallimento dei negoziati per il rilascio degli ostaggi. “Nessun civile è stato ferito dai colpi dei carri armati, fatta eccezione per un incidente isolato fuori dall’edificio in cui due persone sono state ferite da alcune schegge”, si legge nella relazione delle forze armate israeliane (Idf). “La maggior parte degli ostaggi è stata probabilmente assassinata dai terroristi”. Anche per il colonnello Nissim Hazan, il comandante del carro armato che sparò a Be’eri, “non c’era altra scelta che sparare”.
Ma i parenti delle vittime contestano le conclusioni dell’inchiesta dell’Idf. “Non è proprio vero (che gli ostaggi non sono rimasti feriti dai colpi dei carri armati, ndr)”, ha precisato a Radio Bet la nuora di Pessi Cohen, Sharon. Una delle due sopravvissute all’attacco, Yasmin Porat, ha poi ricordato all’emittente pubblica Kan che le forze di sicurezza israeliane hanno dato inizio allo scontro a fuoco prima dei negoziati: “Hanno eliminato tutti, compresi gli ostaggi”.
Secondo due diverse inchieste dei quotidiani israeliani Haaretz e Yedioth Ahronot, pur senza citarla direttamente, il 7 ottobre Tel Aviv avrebbe attivato la cosiddetta “Direttiva Annibale”, un protocollo risalente al 1986 ai tempi della guerra in Libano, che autorizza i soldati a sparare ai nemici che tengono in ostaggio i commilitoni, anche a rischio della vita dei sequestrati. “Hannibal a Erez, invia uno Zik (un drone, ndr)”, sarebbe stato l’ordine dato allora, secondo Haaretz. Così, per Yedioth Ahronot, almeno 70 veicoli diretti a Gaza sono stati distrutti, uccidendo tutti i passeggeri. Nessuno sa quanti di questi erano ostaggi.
Nel corso della giornata, hanno raccontato a Yedioth Ahronot alcuni piloti dell’aviazione, 28 elicotteri hanno sparato tutte le munizioni che avevano, rifornendosi ripetutamente. Anche i carri armati sono intervenuti prendendo di mira i veicoli diretti nella Striscia. “Il mio istinto mi diceva che a bordo potevano esserci dei miei commilitoni”, ha ammesso all’emittente Channel 13 il capitano Bar Zonshein, comandante di un carro armato durante gli attentati del 7 ottobre. “Ma ho deciso che questa era la scelta giusta: era meglio impedire il rapimento”.
Le Idf non hanno mai confermato il ricorso alla “Direttiva Annibale”, che comunque non si applica ai civili – come stabilito nel 2015 dalla Procura generale israeliana – e raccomanda sempre l’uso di armi leggere e mai di bombe, missili o proiettili di artiglieria. Ma, come ha spiegato in un podcast pubblicato da Haaretz l’ex colonnello dell’Aeronautica militare israeliana Nof Erez, pur non avendo ricevuto un ordine esplicito, la direttiva è stata “apparentemente applicata” dagli equipaggi dell’aviazione e dell’artiglieria intervenuti durante gli attentati.
Alla domanda inviata dall’australiana Abc circa l’attivazione di questa procedura il 7 ottobre, l’Idf ha risposto che “questioni di questo genere saranno esaminate in una fase successiva”. Una risposta a dir poco evasiva.