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Parla il figlio di un ostaggio israeliano rapito il 7 ottobre: “Ridatemi mio padre”

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TPI ha incontrato il figlio dello storico dell'Olocausto Alex Danzig che, a 75 anni e con diverse patologie cardiache e renali, è sotto sequestro a Gaza dal 7 ottobre

Yuval Danzig non ha notizie di suo padre Alex dalla mattina del 7 ottobre quando Hamas e la Jihad Islamica attaccarono il kibbutz Nir Oz, nel sud di Israele, non lontano dalla striscia di Gaza, dove da allora è rimasto sotto sequestro. 

“Le uniche informazioni che abbiamo su di lui risalgono a 50 o 60 giorni fa”, racconta a TPI. “Sappiamo come è stato rapito, sappiamo anche dove è stato portato inizialmente perché c’è un video dell’esercito che mostra il tunnel in cui si trovava. Ma non conosciamo le sue condizioni di salute ed è questo che ci preoccupa di più. Vogliamo solo che torni a casa vivo, con i suoi amici e mio zio (anche lui sequestrato da Hamas, ndr)”.

Quel maledetto 7 ottobre
Alex Danzig ha 75 anni, è uno studioso e storico dell’Olocausto, soffre di problemi cardiaci e necessita di farmaci essenziali. “È figlio e fratello di sopravvissuti all’Olocausto”, ci spiega Yuval. “Per noi la Giornata della memoria è stata molto dura perché si tratta proprio di ciò di cui si occupa mio padre, è uno storico: insegna a non dimenticare l’Olocausto. È stato uno dei fondatori delle delegazioni di giovani in visita in Polonia nei luoghi della Shoah”. 

Danzig è nato in Polonia dopo la guerra – nel 1948, lo stesso anno della fondazione dello Stato di Israele – e sua sorella maggiore, Edith, è una sopravvissuta all’Olocausto. Emigrato in Israele con i suoi genitori nel 1957, ha trascorso gli ultimi trent’anni lavorando per lo Yad Vashem.

Alex ha quattro figli e tre nipoti e due dei suoi figli sono sopravvissuti al massacro di Hamas. “C’erano anche mia sorella, mio fratello e mia madre nel kibbutz quando mio padre e mio zio sono stati rapiti”, ricorda Yuval. “Io non c’ero”.

“L’ultima volta che ci siamo sentiti era la mattina del 7 ottobre: avevo sentito che il kibbutz era sotto attacco e così ho chiamato mio padre, come sempre. Per noi era normale, abbiamo pensato al classico attacco con razzi, magari più pesante del solito ma non immaginavamo nient’altro”, aggiunge.

“Mi disse che, da quanto aveva sentito, c’erano dei terroristi nel kibbutz. Forse uno o due, quindi ero certo che l’esercito sarebbe stato in grado di gestire la situazione”, afferma. “Ma poi ha smesso di rispondere: è stata l’ultima volta che l’ho sentito”. Erano quasi le 9:00 del mattino, così Yuval tentò di contattare il fratello ma un’ora dopo gli arrivò un messaggio da sua sorella, che gli chiedeva di chiamare la polizia e l’esercito perché li venissero a salvare. “Stavano portando via le persone dalle loro case, così abbiamo capito cosa stava davvero accadendo”.

Le forze armate israeliane riusciranno a raggiungere la casa di Alex Danzig non prima di sette o otto ore dopo, trovandola deserta, senza segni di danni a cose o lesioni a persone. Da allora Yuval pensa spesso alla telefonata avuta il giorno prima dell’attacco con suo padre. “Mio figlio aveva il suo Bar Mitzvah il 12 ottobre: così abbiamo parlato di cosa avremmo fatto quel giorno”, ricorda. “Ma abbiamo dovuto celebrarlo senza di lui”.

Cento giorni di buio
Da quel momento, su Alex è calato il silenzio. “Non abbiamo nessuna foto di lui, niente. Non l’abbiamo visto da nessuna parte: abbiamo cercato di trovare un video, magari del rapimento, ma niente”, ci spiega. 

“Ho incontrato il generale Gal Hirsch (responsabile del governo per la questione degli ostaggi, ndr) e il premier Benjamin Netanyahu e poi lo scorso mese anche il ministro della Difesa, Yoav Gallant. Ma non ci hanno dato altre informazioni rispetto alle ultime, trapelate dopo la liberazione delle donne in ostaggio (a fine novembre, ndr)”, rivela Yuval.

“Le uniche informazioni che abbiamo su di lui risalgono a 50 o 60 giorni fa. Sappiamo cosa gli è successo, come è stato rapito e in che condizioni era, almeno all’inizio, perché abbiamo un video che mostra il tunnel in cui si trovava, scoperto dall’esercito. Ma non sappiamo dove sia, non conosciamo le sue condizioni di salute ed è questo che ci preoccupa di più”, racconta. “Quattro anni e mezzo fa ha avuto un grave attacco cardiaco e ha anche un problema ai reni, ha bisogno di respirare bene per dormire, ha bisogno di molte cure e sappiamo che non le ha ricevute. Lo sappiamo per certo dalle donne liberate che erano con lui”.

“È una situazione disumana”, dice Yuval. Le indiscrezioni su un possibile accordo per la liberazione degli ostaggi non placano l’ansia delle famiglie. “Sentiamo parlare di accordi da mesi e dalla fine della prima tregua sappiamo che c’è un negoziato in corso. L’importante è che arrivino a un’intesa che concluda questa situazione e non a un altro accordo per la liberazione di 10 o 40 persone. Devono riportare a casa vivi  tutti i 136 ostaggi, compresi mio padre e mio zio. È un crimine contro l’umanità e bisogna porvi fine”.

Futuro prossimo
Per il bene di tutti. Secondo Yuval infatti, non c’è altra soluzione alla liberazione degli ostaggi. “Dopo quanto hanno fatto, sono responsabili per il loro popolo”, ci dice rivolgendosi idealmente ai rapitori. “Se vogliono una soluzione per il loro popolo, tutti gli ostaggi devono tornare a casa sani e salvi. È il primo passo per arrivare a una soluzione”.

Una soluzione che non contempla certo il ritorno degli insediamenti israeliani nella Striscia, come prefigurato da un convegno organizzato ieri a Gerusalemme alla presenza, secondo gli organizzatori, di 12 ministri del governo, 15 deputati della Knesset e altre tremila persone. “Non sono un politico ma quello che è successo ieri a Gerusalemme rappresenta solo una minoranza degli israeliani e la maggior parte di queste persone non sono ragionevoli. Ma la maggioranza di Israele non la pensa così”, sostiene Yuval che, come altri familiari delle persone rapite da Hamas, si interroga sull’opportunità di fare questo genere dichiarazioni “mentre i nostri cari sono ancora tenuti in ostaggio laggiù”.

Il futuro invece deve avere un unico obiettivo: la pace. “Non deve esserci mai più un 7 ottobre. Ma dobbiamo trovare soluzioni che permettano a tutti di vivere in pace”, sostiene Yuval. “Sappiamo che molti civili si sono uniti a Hamas negli attacchi del 7 ottobre. Ma nonostante questo dobbiamo trovare una via d’uscita. Anche se sappiamo che alcuni di coloro che hanno commesso crimini di guerra faranno parte della soluzione, capiamo che non è possibile andare avanti così”.

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