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Home » Esteri

Ecco chi può succedere a Ismail Haniyeh come nuovo capo di Hamas

Immagine di copertina
Credit: AGF

Oltre ad aumentare le tensioni in Medio Oriente, la morte del capo politico di Hamas Ismail Haniyeh, ucciso il 31 luglio in Iran in un attacco attribuito a Israele, apre una nuova corsa alla leadership del gruppo terroristico palestinese.

La guerra in corso da quasi dieci mesi nella Striscia di Gaza e i continui raid dello Stato ebraico contro esponenti dell’organizzazione e dei loro alleati in tutta la regione complicano la nomina di un nuovo leader di Hamas ma alcuni nomi sembrano più probabili di altri. Intanto però alla guida del gruppo sembra tornato il suo leader storico, Khaled Meshaal.

L’interim del predecessore
Nato nella città di Silwad, in Cisgiordania nel 1956, tra il 1967 e il 1990 ha vissuto in Kuwait, dove ha guidato il movimento islamico palestinese presso la Kuwait University. Dopo lo scoppio della guerra del Golfo nel 1990 si è trasferito in Giordania, dove è rimasto fino alla sua espulsione in Qatar nel 1999. Due anni prima, nel settembre 1997, fu oggetto di un tentativo di assassinio da parte di Israele mentre viveva ad Amman, che provocò una crisi diplomatica tra il regno hashemita e Tel Aviv. Tra il 2000 e il 2012 ha vissuto invece a Damasco prima di tornare a Doha dopo l’inizio della guerra civile in Siria.

Già capo dell’Ufficio politico di Hamas dal 1996 al 2017, Meshaal ha assunto la guida “ad interim” dell’organizzazione dopo l’omicidio di Haniyeh. Almeno questo è quanto emerso da una nota diramata oggi dal ministero degli Esteri della Turchia dopo un colloquio avvenuto a Doha, in Qatar, proprio tra Meshaal e il capo della diplomazia turca Hakan Fidan, arrivato nell’emirato per presenziare alla sepoltura del defunto leader del gruppo terroristico palestinese. Nel comunicato relativo all’incontro, dove erano presenti anche i figli di Haniyeh Abdul Salam e Hemmam a cui il ministro turco ha porto le proprie condoglianze, Meshaal viene definito “vicepresidente dell’ufficio politico” e “capo ad interim del politburo di Hamas”. Evidentemente, vista l’esperienza, i tempi stretti e le difficoltà di organizzare una nuova nomina, la scelta di affidare la transizione all’ex leader dell’organizzazione è apparsa la più sensata.

D’altronde è già stato protagonista di un’altra fase di passaggio di Hamas. Dopo la morte del fondatore Ahmad Yasin in un raid aereo israeliano nel 2004, la fine della seconda Intifada e il ritiro unilaterale di Tel Aviv da Gaza nel 2005, pur non rinunciando ai metodi terroristici, Khaled Meshaal riuscì a guadagnarsi la supremazia dell’ala politica del gruppo sulla sua componente militare, anche grazie al consenso raccolto dalle attività sociali promosse dall’organizzazione nei Territori occupati.
Nel 2006 così, sotto la sua guida, Hamas vinse le elezioni palestinesi, costringendo il rivale Fatah e il presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen) a formare un governo di unità nazionale guidato proprio dal premier Ismail Haniyeh, allora leader del gruppo a Gaza. Ma durò poco perché già l’anno successivo la guerra civile portò a una separazione di fatto dei territori, con un golpe di Hamas nella Striscia e l’Autorità nazionale palestinese al governo in Cisgiordania, una situazione che ancora perdura dopo 17 anni. Ma non finì qui.

Dieci anni dopo, nel 2017, prima dell’avvicendamento alla leadership tra Meshaal e Haniyeh, l’ultimo atto dell’ex capo politico del gruppo fu la presentazione di un nuovo statuto “rivisto” rispetto al “Patto” originale del 1988. Nei quarantadue paragrafi del documento, per la prima volta, Hamas rompeva con la tradizione del fondamentalismo religioso e si identificava solo come un movimento del popolo palestinese, fondando le sue rivendicazioni non più sulla legge islamica ma sul diritto internazionale, chiarendo che la sua guerra è “contro Israele”, che continua a non riconoscere, ma “non contro gli ebrei” e confermando il rifiuto al negoziato.

Addirittura nel testo si fa riferimento alla “creazione di uno Stato palestinese pienamente sovrano e indipendente, con Gerusalemme come capitale, entro i confini del 4 giugno 1967”, perfettamente in linea con il diritto internazionale e in contraddizione con lo slogan ufficiale “Dal fiume (Giordano) al Mare (Mediterraneo)”, che conferma implicitamente la volontà di cancellare dalle mappe lo Stato ebraico. Un passaggio comunque non da poco e forse politicamente più complicato rispetto all’attuale situazione, seppur pericolosa per i risvolti attesi a livello regionale. Ma Meshaal non è l’unico nome in lizza.

Il negoziatore
Uno dei favoriti sembra l’attuale numero due del gruppo nella Striscia, Khalil al-Hayya, molto vicino a Haniyeh, con cui a Doha ha contribuito a guidare gli attuali negoziati con Israele mediati da Qatar, Egitto e Usa.

Nato nel 1960 a Gaza, è membro del Politburo e vice capo dell’Ufficio politico regionale di Hamas nella Striscia dal febbraio 2017, da quando Yahya Sinwar ha sostituito Haniyeh alla guida dell’organizzazione nel territorio costiero palestinese. Sposato, ha sette figli ma ne ha persi tre, morti insieme alla moglie in vari raid di Israele, che soltanto nel 2007 gli uccise almeno sette parenti.

Esperto di teologia e giurisprudenza islamica, Al-Hayya ha ricoperto diversi incarichi nei sindacati locali della Striscia ed è stato eletto al Consiglio legislativo palestinese alle consultazioni vinte da Hamas nel 2006. Ha poi svolto un ruolo chiave nei colloqui per un cessate il fuoco con Israele durante la guerra a Gaza del 2014, partecipando anche ai negoziati aperti quattro anni dopo per una nuova tregua. Ha anche guidato la lista del gruppo “Gerusalemme è la nostra promessa” che avrebbe dovuto partecipare alle legislative del maggio 2021, poi annullate. Quello stesso anno è stato rieletto vice di Sinwar a Gaza.

A causa della attività politica risiede però a Doha, in Qatar, ma vanta credenziali importanti sia dal punto di vista dei contatti internazionali che del consenso interno. Subito dopo gli attentati del 7 ottobre scorso giustificò l’attacco in un’intervista al New York Times in cui ammise che, in 17 anni di dominio sulla Striscia, Hamas non aveva cercato di governare Gaza o di migliorare la qualità della vita dei suoi cittadini ma piuttosto di “rovesciare completamente la situazione” contro Israele.

Presente a Teheran, in Iran, nello stesso complesso in cui è stato ucciso Haniyeh insieme a una delle sue guardie del corpo, da sopravvissuto all’attacco attribuito a Israele ha presenziato ai funerali del capo politico di Hamas, in cui si è scagliato contro Tel Aviv.

“Se il nemico sionista pensa che uccidere i nostri leader indebolirà la nostra determinazione, si sbaglia”, ha dichiarato ieri al-Hayya. “Con questo nuovo crimine, ha ancora una volta dimostrato al mondo che l’entità sionista è la fonte del male. Il sangue di Haniyeh indicherà la strada all’unità del popolo e alla resistenza per la liberazione della Palestina e di Gerusalemme. Ci impegniamo con la nostra nazione a continuare a resistere all’occupazione sionista fino alla sua fine, a riportare il nostro popolo nella sua terra, a stabilire il nostro Stato e a determinare il nostro destino”.

Insomma, una figura di spicco, esperta delle manovre politiche interne alla leadership, con profondi legami in Qatar e buone entrature a Teheran come in Turchia, che partecipa da dieci anni ai negoziati con Israele, pur mantenendo un profilo radicale, il che potrebbe fargli guadagnare abbastanza consensi da sostituire Haniyeh. L’ostacolo maggiore però potrebbe essere proprio il suo capo a Gaza, Yahya Sinwar.

La “mente del 7 ottobre”
Il leader di Hamas nella Striscia e membro del Politburo dal 2017, è considerato una delle principali figure di collegamento tra l’Ufficio politico e l’ala armata del gruppo, le Brigate Izz al-Din al-Qassam. Considerato la “mente” degli attentati del 7 ottobre, Sinwar avrebbe tutte le carte in regola per assumere la leadership di Hamas ma, essendo rimasto all’interno della Striscia dove è costretto a nascondersi nei tunnel sotterranei per sfuggire ai raid delle truppe di Israele, difficilmente potrebbe raggiungere i suoi sodali a Doha e guidare le attività politiche dell’organizzazione terroristica.

D’altra parte Sinwar ha una lunga esperienza nelle forze paramilitari di Hamas. Nel 1988 ha contribuito a creare il primo apparato di sicurezza interna dell’organizzazione, al-Majd, istituito per punire le spie e i sospetti collaborazionisti con Tel Aviv. Arrestato più volte dallo Stato ebraico, trascorrendo un totale di 24 anni nelle carceri israeliane, l’ultima volta è stato rilasciato nel 2011 insieme a oltre un migliaio di detenuti palestinesi nell’ambito dell’accordo accettato dall’allora premier Benjamin Netanyahu in cambio della liberazione del soldato israeliano Gilad Shalit.

Inserito dagli Usa nella lista dei principali terroristi a livello globale nel 2015, negli ultimi anni è diventato il principale fautore della riconciliazione con Fatah, a cui ha proposto di costituire una forza armata unitaria tra le maggiori fazioni palestinesi, e della ripresa dei rapporti con l’Egitto.

Una sua eventuale “candidatura” a sostituire Haniyeh dovrebbe però scontrarsi in primis con la realtà della guerra a Gaza, che gli impedisce fisicamente di uscire dalla Striscia, ma anche con la volontà di Israele di punirne il ruolo giocato il 7 ottobre, con la cattura o con la morte. Ma il vertice politico non è l’unico incarico da assegnare all’interno del gruppo.

Il tesoriere
La campagna di omicidi mirati condotta dallo Stato ebraico contro Hamas ha decimato la leadership dell’organizzazione, che dal gennaio scorso deve fare a meno anche di un’altra importante personalità come Saleh al-Arouri, responsabile dal 2021 degli affari di Hamas in Cisgiordania e principale esponente del gruppo in Libano, ucciso in un raid di Israele a Beirut.

Arouri, che da allora non è stato mai ufficialmente sostituito all’interno dell’organigramma del gruppo, era il principale vice di Haniyeh e, se fosse sopravvissuto, probabilmente sarebbe stato il suo erede politico naturale. Al suo posto, secondo informazioni di intelligence divulgate da Israele, ci sarebbe oggi il suo vice, Zaher Ali Moussa Jabarin, capo dell’Ufficio finanziario di Hamas, che risiede in Turchia, un altro degli oltre mille detenuti palestinesi scambiati nel 2011 con Gilad Shalit.

Sanzionato nel 2019 dagli Stati Uniti, Jabarin possiede un passaporto del Qatar e viaggia spesso per affari in Libano, nell’Emirato e in Iran. Il suo ruolo principale è avviare attività economiche, ottenere visti e acquistare immobili a scopo commerciale in Turchia e nel resto della regione. Ma soprattutto supervisionare gli investimenti del gruppo. Non è considerato tra i favoriti alla successione di Haniyeh ma potrebbe giocare un ruolo importante nel quadro della riorganizzazione interna a Hamas, dove i raid di Israele hanno “liberato” diverse caselle, non solo quella di Arouri.

Il “morto vivente”
La prima da riempire, urgentemente, dovrebbe essere quella del comandante militare a Gaza dopo la conferma da parte delle forze armate israeliane e la mancata smentita di Hamas della morte di Mohammad Deif, l’esecutore degli attentati del 7 ottobre, che sarebbe rimasto ucciso il 13 luglio in un raid di Tel Aviv a Khan Yunis, nel sud della Striscia.

Il principale candidato a sostituirlo sarebbe proprio il fratello di Yahya Sinwar, Mohammad, tra i responsabili del sequestro di Gilad Shalit nel giugno 2006 e figura di collegamento con i sequestratori nella mediazione dell’accordo con Israele per la liberazione del soldato in cambio del rilascio di oltre un migliaio di detenuti palestinesi, tra cui l’attuale leader di Hamas a Gaza.

Coinvolto nelle operazioni di pianificazione degli attentati del 7 ottobre, Mohammad Sinwar ha vissuto in clandestinità per diversi anni, tanto da essere stato soprannominato “il morto vivente” dopo che Hamas ne annunciò il decesso nel 2014, poi rivelatosi solo uno stratagemma per trarre in inganno l’intelligence di Tel Aviv.

Sopravvissuto a sei tentativi di omicidio, l’ultima volta nel novembre 2023 quando le truppe israeliane fecero irruzione nel suo ufficio a Gaza City, una sua promozione alla guida dell’ala militare di Hamas nella Striscia potrebbe favorire l’ulteriore ascesa del fratello all’interno dell’organizzazione, anche se una serie di accuse di molestie sessuali, mosse contro Mohammad Sinwar dall’intelligence israeliana, potrebbero precluderne il cammino verso la leadership delle Brigate Izz al-Din al-Qassam a Gaza, su cui comunque godrebbe di una certa influenza.

Il confidente
Tra i papabili a sostituire Deif però ci sono altre figure di maggior peso rispetto a Mohammad Sinwar. In primis, il principale alleato e confidente del fratello Yahya, Rawhi Mushtaha, considerato il suo erede politico a Gaza in caso Israele riuscisse a uccidere o catturare il leader di Hamas nella Striscia oppure se questi dovesse assumere incarichi di grado più elevato, magari all’estero.

Co-fondatore insieme a Sinwar del servizio di sicurezza interna “al-Majd” alla fine degli anni Ottanta, attualmente è considerato il responsabile delle finanze di Hamas a Gaza. Eletto per la prima volta nel 2012 al Politburo del gruppo, è stato arrestato da Israele nel 1988 e anche lui è stato rilasciato nell’ambito dell’accordo per la liberazione di Gilad Shalit.

Inserito dagli Usa nella lista dei principali terroristi a livello globale nel 2015 insieme a Sinwar, prima dell’offensiva di Israele a Rafah, cominciata nel maggio scorso, gestiva le attività di Hamas presso il valico con l’Egitto. Da allora però non risultano sue dichiarazioni, pertanto il suo destino resta ancora poco chiaro.

Il “signore dei tunnel”
Un altro possibile sostituto di Mohammad Deif risponde al nome di Mohammad Shabana, nome di battaglia “Abu Anas”, uno degli ultimi comandanti veterani di Hamas nella Striscia, che dal 2014 guida proprio il battaglione del gruppo terroristico a Rafah.

Shabana sarebbe “l’uomo dei tunnel”, il responsabile cioè dello sviluppo della cosiddetta “metropolitana”, la rete di migliaia di gallerie che collegano Rafah ai territori oltre confine, utilizzati da Hamas per attaccare le truppe israeliane, compiere attentati nello Stato ebraico e sequestri, tra cui quello di Gilad Shalit nel 2006.

Sopravvissuto a diversi tentativi di omicidio da parte di Israele, l’ultimo nel dicembre scorso, Shabana ha perso due figli durante gli attentati del 7 ottobre nello Stato ebraico, mentre un terzo è stato ucciso a maggio dalle truppe di Tel Aviv durante gli scontri scoppiati nella zona orientale di Rafah. La sua casa è stata più volte bombardata da Israele, che lo considerava un obiettivo da colpire anche prima degli attacchi di dieci mesi fa. Anche lui però risulta attualmente irreperibile e non è chiaro se sia sopravvissuto alle ultime operazioni militari israeliane in corso da tre mesi nel sud della Striscia.

Gli ultimi nomi non saranno presi in considerazione per la successione di Haniyeh ma la loro ascesa o meno all’interno di Hamas per sostituire i sodali rimasti uccisi può muovere le pedine necessarie, a Gaza come in Qatar, per la nomina del nuovo capo politico dell’organizzazione, che sarà comunque affidata al voto del Consiglio della Shura, un organo ufficialmente soltanto consultivo che però ha il potere di eleggere i 15 membri del Politburo, il braccio esecutivo del gruppo da cui vengono scelti i responsabili dei principali dipartimenti dell’organizzazione e il suo leader.

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