Cronistoria di una vendetta: così Israele ha devastato la Striscia di Gaza
Oltre 14mila civili uccisi, più di 1,6 milioni di sfollati su 2,4 milioni di abitanti. In sette settimane di guerra contro Hamas, lo Stato ebraico ha distrutto o gravemente danneggiato il 45% di tutti gli edifici del territorio. Un trauma che la tregua non potrà cancellare
«È la peggiore di sempre e non lo dico alla leggera». Nonostante la tregua e l’ingresso dei primi aiuti, la situazione umanitaria a Gaza continua a essere critica. A più di 50 giorni dall’inizio dei raid israeliani, circa la metà degli edifici nella parte settentrionale della Striscia risulta danneggiata dai bombardamenti. Più di 14mila palestinesi sono morti, oltre un terzo bambini. Quasi l’80 per cento dei 2,3 milioni di abitanti è sfollato.
Nelle parole di un dirigente delle Nazioni Unite, si tratta di una situazione «mai vista prima». «È una carneficina completa e totale», ha detto in una recente intervista il sottosegretario generale per gli affari umanitari, Martin Griffiths.
Catastrofe senza precedenti
Un quadro già descritto nelle scorse settimane come «catastrofico», che ha fatto precipitare una delle situazioni umanitarie più difficili al mondo. Lunga 40 chilometri e larga 10, la striscia di Gaza è considerata uno dei luoghi più densamente popolati del pianeta. Dal 2007, quando ha preso il potere Hamas, le autorità israeliane hanno inasprito i controlli sui movimenti di merci e persone rendendo la striscia, secondo molti osservatori e attivisti, la «più grande prigione a cielo aperto al mondo», sbarrata sia al confine con l’Egitto che con Israele. Già prima della guerra il 60 per cento viveva al di sotto della soglia di povertà e l’80 per cento degli abitanti faceva affidamento sugli aiuti umanitari per sopravvivere.
Dal ritiro delle forze israeliane nel 2005, lo Stato ebraico ha lanciato cinque campagne militari nella Striscia. Quella avviata in risposta agli attacchi del 7 ottobre, in cui hanno perso la vita 1.200 israeliani, è di gran lunga la più sanguinosa. Finora, secondo Volker Türk, Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, 1 residente su 57 è stato ucciso o ferito nei raid aerei o nell’invasione di terra.
Oltre ad aver perso migliaia di civili, Gaza è attraversata da una distruzione che viene definita «senza precedenti». Secondo due ricercatori statunitensi, dall’inizio dei bombardamenti tra il 40 e il 51 per cento di tutte le strutture nella parte settentrionale di Gaza hanno subito danni.
L’analisi di Jamon Van Den Hoek, della Oregon State University, e Corey Scher, del Cuny Graduate Center di New York è basata sui segnali radar provenienti dal satellite dell’Esa Sentinel-1, grazie ai quali è stato possibile rilevare cambiamenti nelle strutture degli edifici. Gli stessi metodi sono stati già applicati per le guerre in Siria, Ucraina e altre campagne a Gaza. «L’entità e la rapidità con cui si sono verificati i danni in questa guerra non hanno precedenti nel nostro lavoro su Gaza», ha dichiarato Van Den Hoek all’emittente statunitense Abc.
Anche rispetto ad altri teatri, il livello di distruzione è inedito. «Ci sono voluti quattro anni di conflitto in Siria per distruggere una quota comparabile di patrimonio immobiliare», ha dichiarato Abdallah al-Dardari, direttore per gli Stati arabi del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp).
Le aree colpite più intensamente si trovano nella parte settentrionale della Striscia dove, nella fase iniziale, le forze israeliane hanno concentrato gli attacchi per preparare l’ingresso delle forze di terra, ordinando alla popolazione di spostarsi a Sud.
In località come Beit Hanun il paesaggio è lunare. Da questa cittadina a Nord di Gaza provenivano alcuni dei miliziani che hanno partecipato agli attacchi del 7 ottobre, in cui Hamas e altri gruppi palestinesi hanno preso circa 240 ostaggi. Secondo un giornalista di Le Monde, che l’ha visitata a inizio novembre, un «enorme cumulo di macerie ha sostituito la città», in cui prima vivevano 52mila persone, e ormai «tutto è in frantumi».
Un paesaggio lunare
Ai danni dei bombardamenti si sono aggiunti gli effetti del blocco totale annunciato all’inizio dell’operazione: lo stop alle forniture di cibo, acqua e carburante ha fatto precipitare la Striscia in quella che, a detta degli operatori umanitari, è una delle peggiori crisi degli ultimi decenni.
Nel Sud della Striscia di Gaza, dove in poche settimane si è trasferito quasi un milione di persone, il 70 per cento degli abitanti era arrivato a non avere più accesso all’acqua potabile. Il motivo era l’assenza di carburante per i depuratori, alleviato in parte dalla tregua iniziata venerdì 24 novembre.
Durante la pausa nei combattimenti, sono entrati nella Striscia circa 200 camion di aiuti al giorno. È la quantità più ingente di aiuti arrivata nella striscia finora, anche se equivale a meno della metà dei furgoni che entravano prima dell’inizio della guerra.
Nonostante l’arrivo degli aiuti, molti hanno continuato a non avere accesso al cibo. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Ocha), tutti i forni della striscia hanno chiuso i battenti a causa della scarsità di carburante, acqua, farina e dei danni dovuti ai bombardamenti, come quelli che il 15 novembre hanno distrutto uno dei principali mulini dell’enclave.
Un’altra emergenza è quella relativa alle fognature, anche questa dovuta alla carenza di carburante che ha messo fuori uso molte pompe, causando la fuoriuscita di liquami in diverse aree.
Stretti tra bombardamenti, ordini di evacuazione e confini chiusi, gli abitanti di Gaza non hanno molte alternative. Neanche le strutture delle Nazioni Unite e gli ospedali sono al sicuro. Secondo l’Ocha più del 50 per cento degli edifici scolastici sono stati danneggiati e nessuno dei 625mila studenti di Gaza ha la possibilità di frequentare la scuola. Per quanto riguarda gli ospedali, solo 12 delle 35 strutture della striscia sono in grado di funzionare parzialmente. Decine di ambulanze (55 a metà novembre) sono state danneggiate. L’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms) ha finora documentato 187 attacchi contro strutture sanitarie, con danni a 24 ospedali. Al loro interno la situazione è infernale.
Nessuno è più al sicuro
«Non ho mai visto nulla del genere», ha dichiarato al Guardian il chirurgo ortopedico Paul Ley, arrivato con un’équipe della Croce rossa internazionale allo European Hospital di Khan Younis, uno degli ultimi ospedali ancora aperti. «Eseguiamo operazioni con una quantità minima di anestetico. Se lo finiamo, non possiamo operare ma non c’è una linea chiara. Ci sono molte persone che piangono, urlano di dolore, ma non abbiamo abbastanza analgesici. Li teniamo per i bambini o per i casi molto gravi. Normalmente cambieremmo le medicazioni ai pazienti con il 40 per cento di ustioni tenendoli sotto sedazione e riduciamo al minimo i tempi utilizzando più assistenti» mentre ora «deve essere fatto con molto dolore». Oltre ai feriti e ai malati, l’ospedale è pieno di sfollati, che finiscono per dormire anche negli ascensori, mentre i chirurghi operano «24 ore su 24» senza mai lasciare la struttura.
La portata della distruzione di case, infrastrutture ed edifici pubblici, fino al Parlamento, segna un punto di discontinuità con i precedenti conflitti: qualsiasi ipotesi di ricostruzione richiederà uno sforzo finanziario e politico di ordine diverso rispetto al passato. Secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari (Ocha), che cita i dati delle autorità di Gaza, finora sono state distrutte almeno 234mila unità abitative: 10 volte il dato della guerra del 2021. All’epoca per la ricostruzione arrivò 1 miliardo di dollari in aiuti dall’estero. Oggi il costo sarebbe decisamente più alto, ma non è chiaro chi potrebbe sostenerlo.
L’incognita del post-Hamas
La questione è legata strettamente a quella del futuro politico della Striscia, in cui i Paesi arabi svolgono un ruolo di primo piano. Il loro coinvolgimento sarebbe gradito agli Stati Uniti e anche a parte dell’establishment israeliano. Ma i governi arabi non hanno alcuna intenzione di fare da «poliziotti» a un’occupazione israeliana. «Vorrei essere molto chiaro», ha detto il ministro degli Esteri giordano, Ayman Safadi, durante una conferenza in Bahrein. «Non ci saranno truppe arabe che andranno a Gaza. Nessuna. Non saremo visti come il nemico».
Anche l’Autorità nazionale palestinese fatica a essere considerata un’alternativa credibile. Nella Striscia di Gaza l’organizzazione guidata da Mahmoud Abbas gode di ancora meno consensi rispetto alla Cisgiordania, dove da anni la leadership è screditata da accuse di corruzione e connivenza con le autorità israeliane. Rimane l’alternativa del ritorno delle forze di terra israeliane, osteggiata dai Paesi arabi e da Washington.
Per gli Stati Uniti, sarebbe auspicabile il coinvolgimento di una Autorità nazionale palestinese «rinvigorita», nelle parole del consigliere di Joe Biden per il Medio oriente, Brett McGurk. Un ostacolo è la posizione dell’attuale governo israeliano, ostile alla soluzione dei due stati. Senza questa, il presidente dell’Anp Mahmoud Abbas ha detto che non potrà accettare di tornare nella striscia. Oltre a essersi battuto contro la creazione di uno stato palestinese per larga parte della sua carriera politica, Benjamin Netanyahu è sempre stato contrario a un rafforzamento dell’Anp. A inizio novembre, il primo ministro israeliano aveva indicato che le forze israeliane avrebbero ripreso il controllo della sicurezza interna alla striscia per un periodo di tempo «indefinito».
Una posizione sconfessata dal principale alleato, che tramite il segretario di Stato Antony Blinken ha posto una serie di paletti: «Nessuna rioccupazione di Gaza dopo la fine del conflitto. Nessun tentativo di bloccare o assediare Gaza. Nessuna riduzione del territorio di Gaza». No anche a qualsiasi trasferimento della popolazione palestinese, come quello proposto in un controverso piano del ministero dell’Intelligence israeliano, che mirava a spostare gli abitanti di Gaza in Egitto. «Siamo molto chiari riguardo al divieto di rioccupazione, così come siamo molto chiari riguardo al divieto di trasferimento della popolazione palestinese», ha sottolineato Blinken.
Le preoccupazioni degli Usa
Parallelamente al crollo dei consensi tra la base democratica, l’amministrazione Biden sta cercando di intervenire per alleviare la crisi umanitaria. Negli scorsi giorni Jake Sullivan, consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, ha dichiarato che la Casa Bianca sta tenendo «un dialogo costruttivo» con Israele per garantire che «qualsiasi azione militare abbia luogo solo dopo che i civili siano stati presi in considerazione».
Nelle prossime settimane si vedrà se sarà sufficiente a fermare quella che il sottosegretario dell’Onu Martin Griffiths ha definito la crisi umanitaria «peggiore di sempre». «Non lo dico alla leggera», ha tenuto a sottolineare in un’intervista con Christiane Amanpour. «Ho iniziato quando avevo vent’anni a occuparmi dei Khmer rossi e ricorderete quanto fossero terribili i campi di sterminio, ma il 68 per cento delle persone uccise a Gaza sono donne e bambini», ha proseguito. «Hanno smesso di contare il numero dei bambini uccisi dopo che sono arrivati a 4.500. Nessuno va a scuola a Gaza. Nessuno sa quale sarà il loro futuro. Gli ospedali sono diventati un luogo di guerra, non di cura».
Secondo Griffiths questa «è una crisi che distrugge la nostra convinzione, consolidata nell’arco di molti decenni, in base alla quale la guerra non dovrebbe essere la prima opzione. E sono terrorizzato nel vedere che in questo caso non è vero. La guerra è diventata l’opzione all’ordine del giorno e la sofferenza che ne deriva è astronomica».