Ucraina, Corea, Taiwan, Africa, Medio Oriente: ecco tutte le guerre di cui dovremo preoccuparci nel 2023
Da Kim Jong Un alle tensioni nel Pacifico. Dall’Ucraina al Medio Oriente. La lista dei conflitti che potrebbero degenerare è lunga. Ecco le zone più calde da tenere d’occhio per evitare altre brutte sorprese
Il ritorno della guerra in Europa è di fatto la notizia del 2022, al punto che il presidente ucraino Volodymyr Zelensky si è guadagnato – suo malgrado – la copertina di “Persona dell’anno” di Time mentre il suo omologo russo, Vladimir Putin, è considerato ad oggi dalla stragrande maggioranza dei Paesi del mondo il nemico pubblico numero uno. Basti pensare che al voto sulla risoluzione dell’Onu che lo scorso ottobre condannava i referendum illegali nelle regioni del Donbass e lo stesso tentativo di Mosca di annettere quell’area furono soltanto cinque i contrari: la Russia – ovviamente – insieme alla Bielorussia, sua alleata militare, poi Corea del Nord, Nicaragua e Siria. Per molti politici occidentali, l’aggressione a Kiev è la crisi più importante del momento: una guerra sfrontata, cruenta e ingiustificata che ha segnato inevitabilmente un momento epocale nel vecchio continente, risvegliando strategie militari ed economiche nelle principali capitali europee e rinvigorendo l’alleanza transatlantica. Al contempo, però, la crisi ha portato una serie di effetti a catena – shock nelle catene di approvvigionamento, nei mercati energetici e nei sistemi alimentari globali – che hanno acuito altre crisi lontane. Il Council on Foreign Relations, un think tank statunitense specializzato in politica estera e affari internazionali, ha pubblicato il suo annuale sondaggio sulle priorità preventive degli Stati Uniti (Preventive Priorities Survey) intervistando più di 500 funzionari governativi, politici e accademici americani e chiedendo loro di identificare e valutare trenta conflitti in corso o potenziali sulla base della probabilità che si intensifichino o si verifichino nel 2023. Lo scopo dell’indagine è orientare le decisioni politiche degli Stati Uniti mettendo in cima alla lista delle priorità la prevenzione dei conflitti più concretamente a rischio di escalation e la mitigazione delle crisi già in atto.
Uno sguardo sull’Asia
La prima delle sette minacce più pressanti per il 2023 emerse dal sondaggio è l’avvento di «una grave crisi tra le due sponde dello Stretto di Formosa» che trascini gli Usa in un confronto con la Cina su Taiwan. «Ogni conversazione che ho avuto sull’Ucraina nel corso dell’anno si è spostata a un certo punto su Taiwan», ha dichiarato Suzanne Maloney, vicepresidente e direttrice della politica estera della Brookings Institution, un autorevole centro di ricerca con sede a Washington. La Cina ha infatti assunto posizioni ambigue in merito all’aggressione russa, e nella prima settimana del nuovo anno Pechino ha lanciato nuove esercitazioni militari in mare e nello spazio aereo attorno all’isola. La preoccupazione di Biden è che sia il preludio a una vera e propria invasione. I riflettori restano puntati anche su eventuali escalation in Ucraina che comprendano «la diffusione di armi non convenzionali»: non viene menzionato esplicitamente, ma si fa riferimento alla minaccia nucleare.
Ancora intorno al conflitto in Ucraina, secondo il sondaggio nel 2023 potrebbero generarsi moti rivoluzionari interni alla Russia stessa, che per effetto delle sanzioni e dell’isolamento internazionale rischia il collasso economico e conseguenti disordini sociali: ad oggi la repressione del dissenso ha funzionato bene grazie alle misure messe in campo dal Cremlino contro la libera manifestazione del pensiero nelle strade o sui media, ma non è detto che regga a lungo di fronte all’aggravarsi delle condizioni di vita del ceto medio-basso. Tra le minacce interne agli Stati Uniti poi, Washington teme un cyberattacco diffuso e congiunto a tutte le infrastrutture critiche della macchina statale. Da sud inoltre gli Usa temono il rischio che nuovi disastri naturali e disordini sociali in America Centrale generino massicci flussi migratori verso il Paese da Panama, Costa Rica, Nicaragua, Honduras, El Salvador, Guatemala e Messico, dove la povertà, la violenza, la mancanza di opportunità economiche e l’insicurezza alimentare spingono un numero sempre crescente di persone a cercare di varcare il confine.
L’incognita Netanyahu
Oltre alla crisi di Taiwan, l’Asia resta al centro del dossier anche per una possibile intensificazione di test con armi nucleari e missili balistici a lungo raggio in Corea del Nord. Ormai ogni mese Pyongyang conduce esperimenti militari per mostrare i muscoli di fronte alle sanzioni internazionali: sul finire dell’anno, il 31 dicembre, ha perfezionato il lancio del suo missile balistico intercontinentale più avanzato di sempre, atterrato nel Mare Orientale, noto anche come Mare del Giappone.
L’ultimo campanello d’allarme fatto suonare dal Council on Foreign Relations risuona a Gerusalemme, dopo l’insediamento del sesto governo Netanyahu, considerato il più a destra della storia visto l’ingresso per la prima volta di partiti estremisti nella maggioranza che sostiene il Likud alla Knesset. Durante il giuramento il premier ha citato come primo obiettivo del suo esecutivo la neutralizzazione degli sforzi compiuti dall’Iran per dotarsi di un potenziale nucleare: con la progressiva scadenza degli accordi presi con gli Stati Uniti, il Paese potrà ricominciare ad operare centrifughe atomiche avanzate nel 2026 e ad arricchire l’uranio ad alti livelli a partire dal 2031, uno scenario che Israele ha duramente criticato e che potrebbe tradursi in attacchi aerei sugli impianti nucleari della Repubblica islamica.
Crisi umanitarie
Questo elenco di punti nevralgici delle tensioni internazionali che preoccupano maggiormente gli osservatori statunitensi non tiene conto di un altro report, presentato il mese scorso dall’International Rescue Committee (Irc), ong di soccorso umanitario, secondo la quale ci sono 20 Paesi a rischio di calamità umanitaria nel 2023. Tra questi anche l’Ucraina, che sebbene si trovi sotto costante bombardamento russo compare “soltanto” al decimo posto. Altre nazioni sono in condizioni ancora più disastrose: in cima alla lista ci sono Somalia ed Etiopia, la prima dilaniata da un conflitto civile guidato dal gruppo terroristico al-Shabaab e la seconda alle prese con la contrapposizione tra le forze del Fronte Popolare di Liberazione del Tigray e l’esercito di Addis Abeba. Su entrambe grava una situazione di estrema siccità.
Poi c’è l’Afghanistan, sceso dal primo posto della lista di sorveglianza solo a causa della gravità delle crisi in Africa orientale. Il collasso economico, aggravato dalla presa di potere dei talebani ha fatto piombare gran parte del Paese nella miseria, e l’impasse politica che grava su Kabul – con le riserve estere dei Talebani congelate dalle sanzioni statunitensi – non fa che peggiorare la situazione. «La maggior parte delle crisi del report non sono nuove», ha scritto il presidente e amministratore delegato dell’Irc, David Miliband nella prefazione al rapporto annuale. «Ma il fatto che queste crisi siano prolungate – ha spiegato – non le rende meno urgenti. La ragione principale per cui stiamo assistendo a nuove preoccupanti escalation è che tre fattori chiave come conflitti armati, cambiamenti climatici e instabilità economica stanno portando le emergenze di lunga data a nuovi estremi. E, in alcuni casi, ne stanno anche aprendo di nuove».