Il greenwashing sfacciato della Coca-Cola che sponsorizza la Cop27
Nell’acclamata serie tv “Mad Men” il protagonista, Don Draper, direttore creativo di un’agenzia pubblicitaria nella Manhattan degli anni Sessanta, ha un sogno: realizzare una pubblicità per la Coca-Cola. La più famosa bibita analcolica del mondo ha costruito la sua popolarità anche grazie a campagne di marketing passate alla storia, come quella che un secolo fa consegnò per sempre all’immaginario collettivo la “divisa” rossa di Babbo Natale (che fino ad allora era vestito di verde). Questa volta, però, la bevanda gassata di Atlanta fa parlare di sé per una mossa promozionale che lascia esterrefatti: Coca-Cola sarà infatti tra i principali sponsor della Cop27, la Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti climatici che si aprirà fra tre settimane a Sharm El Sheikh, in Egitto. Non c’è nemmeno bisogno di spiegare perché si tratta di mero sfacciato greenwashing.
La bibita simbolo dell’egemonia culturale americana è anche il primo inquinatore di plastica del pianeta, secondo un’indagine svolta dall’associazione Break Free From Plastic: l’organizzazione da anni sguinzaglia migliaia di volontari in tutto il mondo a caccia di bottigliette abbandonate e altri rifiuti in plastica monouso; e da ben quattro anni Coca-Cola è per ampio distacco il marchio che ricorre più spesso tra le scorie recuperate. «La protezione dell’ambiente è una priorità assoluta», proclama il marchio sul proprio sito web. Peccato che la multinazionale abbia patrocinato l’anno scorso il presidente brasiliano Jair Bolsonaro – noto negazionista dei cambiamenti climatici – in una iniziativa intitolata “Adotta un parco”, altro goffo tentativo di greenwashing da parte di un presidente che ha contribuito a devastare l’Amazzonia e ha dichiarato guerra ad ambientalisti e popolazioni indigene. «Coca-Cola produce 120 miliardi di bottiglie di plastica usa e getta all’anno e il 99% della plastica è prodotto da combustibili fossili», ha protestato John Hocevar, attivista di Greenpeace, intervistato dal britannico The Guardian. Qua in Italia, invece, la stragrande maggioranza dei giornali non ha dedicato una riga alla vicenda.