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Effetto Ucraina: l’Africa ha perso la guerra del grano (e dei fertilizzanti) con l’Europa e i Paesi più ricchi del mondo

Immagine di copertina
Credit: AP Photo

Bastimenti carichi di cereali, navi piene di fertilizzanti e “aiuti” per milioni di dollari. Così Kiev e Mosca si stanno giocando il consenso dei più poveri del pianeta. Ma sono i Paesi i più ricchi ad assicurarsi le spedizioni: al continente va meno dell’11 per cento delle esportazioni, mentre il 45 per cento delle granaglie partite dal Mar Nero è destinato agli Stati più sviluppati, Italia compresa

Era il 22 marzo quando una nave battente bandiera cipriota veniva fermata al largo del porto di Kotka, in Finlandia. Il bastimento proveniva dalla vicina Russia e le autorità locali sospettavano che il carico sotto sequestro appartenesse a un non ben identificato oligarca sottoposto a sanzioni dell’Unione europea per il coinvolgimento nell’invasione dell’Ucraina. Meno di 48 ore dopo, per ragioni umanitarie, il cargo Smew veniva rilasciato con le sue 20mila tonnellate di fertilizzante, del valore stimato in almeno 10 milioni di euro, destinato all’America centrale.

Nelle stesse ore salpavano da Odessa, in Ucraina, altre cinque navi dirette rispettivamente in Algeria, Etiopia, Marocco, Egitto e Tunisia con un carico complessivo di oltre 60mila tonnellate di granturco, 54mila di frumento e quasi 20mila di farina di semi di girasole.

La guerra tra Mosca e Kiev si combatte anche così, a colpi di esportazioni di grano e fertilizzanti ed è una battaglia per raccogliere consensi tra i Paesi del sud del mondo. Qualcosa che, come fece notare nel giugno scorso a Bratislava il ministro degli Esteri indiano, Subrahmanyam Jaishankar, l’Ue non sembra ancora aver capito. Il vecchio continente, ammonì il diplomatico, «deve uscire dalla mentalità secondo cui i problemi dell’Europa sono i problemi del mondo, ma i problemi del mondo non sono i problemi dell’Europa». 

Volodymyr Zelensky e Vladimir Putin invece l’hanno compreso benissimo e sono decisi a sfruttare, tra le altre, la leva dell’accordo sul grano mediato nel luglio scorso da Turchia e Nazioni Unite per conquistare i cuori e le menti dei Paesi meno sviluppati. Non gli stomaci però, visto che la gran parte delle esportazioni di cereali partite negli ultimi 20 mesi dal Mar Nero con la garanzia dell’Onu hanno raggiunto Stati a reddito medio-alto, Italia compresa.

Tra due fuochi
L’intesa, una delle poche raggiunte finora tra ucraini e russi, è stata rinnovata – a fatica – due volte: prima nel novembre scorso per quattro mesi e poi a metà marzo. Ma stavolta, per volontà di Mosca, solo per 60 giorni.

La Russia infatti lamenta una serie di ostacoli di natura pratica alle sue esportazioni di fertilizzanti, di cui è il principale esportatore mondiale. Tanto che il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, impegnatosi in sede di mediazione ad agevolare questo genere di esportazioni russe, ha chiesto al Consiglio europeo del 23 marzo di «facilitare» l’export di Mosca per contribuire alla sicurezza alimentare, soprattutto in Africa. Un appello ignorato dalle conclusioni del Consiglio Ue ma a cui hanno risposto direttamente gli Usa, respingendo le richieste del Cremlino e sottolineando come non vi siano restrizioni al commercio di prodotti agricoli e fertilizzanti russi.

Eppure, accusa Mosca, come mostra il caso della Smew, le sanzioni contro singoli individui o aziende e l’esclusione russa dal sistema di pagamenti Swift possono rallentare il flusso di approvvigionamento per i Paesi più poveri, dipendenti da Russia, Bielorussia e Ucraina per le importazioni di cereali e concimi chimici. Prima del conflitto Mosca esportava infatti il 14% dell’urea e l’11% dei fosfati a livello mondiale e insieme a Minsk controllava il 41% degli scambi globali di cloruro di potassio, portando nelle casse del Cremlino oltre 12 miliardi di dollari all’anno. L’Ucraina invece esportava il 10% del frumento, il 13% dell’orzo, il 15% del granturco e il 50% dell’olio di girasole a livello globale.

Insomma, il Sud del mondo e l’Africa, in particolare, non possono fare a meno di nessuno dei due contendenti e a preoccupare sono soprattutto i costi, non solo quelli energetici. Secondo i dati del World Food Programme, tra il maggio 2020 e la fine del 2022, i prezzi dei fertilizzanti sono aumentati del 199%. Nel primo trimestre di quest’anno, secondo la Banca mondiale, i costi hanno cominciato a scendere (restando comunque a livelli doppi rispetto al periodo pre-pandemia) ma solo perché gli agricoltori dei Paesi in via di sviluppo hanno dovuto diminuire gli acquisti e optare per alternative meno efficaci, che però aumentano il rischio di insicurezza alimentare. Ed è proprio su questo che Russia e Ucraina si giocano il consenso dei più poveri, la cui politica è spesso limitata al pane e alle poche coltivazioni che ne assicurano la sopravvivenza.

Una vera campagna “elettorale”
Così il 20 marzo, nel porto di Mombasa, in Kenya, il vicepresidente del Paese africano, Rigathi Gachagua, ha accolto un carico di quasi 25mila tonnellate di grano ucraino, donato da Kiev. La spedizione è stata possibile grazie al programma “Grain from Ukraine” lanciato a novembre da Volodymyr Zelensky e finanziato, tra gli altri, anche dall’Italia. L’obiettivo dichiarato della campagna del presidente ucraino, che negli ultimi quattro mesi ha donato oltre 140mila tonnellate di cereali, è aiutare 5 milioni di persone che soffrono la fame nel mondo.

Intanto il 6 marzo nella capitale Lilongwe l’ambasciatore russo in Malawi, Nikolai Krasilnikov, presenziava alla cerimonia di consegna di 20mila tonnellate di fertilizzanti donati da Mosca a beneficio di 400mila contadini locali. Un regalo frutto di un accordo mediato a novembre dal Wfp con il gruppo chimico russo Uralchem-Uralkali per spedire nelle nazioni in via di sviluppo 260mila tonnellate di concimi chimici precedentemente sequestrati nei Paesi Bassi per via delle sanzioni.

Eppure tutti questi aiuti gratuiti non sembrano del tutto disinteressati. Sia l’Ucraina che la Russia infatti intendono aumentare i propri legami con l’Africa, impegnandosi in una sorta di campagna “elettorale”. A un anno dall’invasione, le nazioni africane rappresentano ancora quasi la metà di tutte le astensioni in sede Onu sulle risoluzioni di condanna della Russia. In particolare, nel 2023 solo 30 Paesi del continente, appena due in più rispetto all’anno scorso, hanno condannato l’operato di Mosca e ben 15 non si sono espressi. Non a caso, Zelensky ha annunciato l’intenzione di aprire altre 10 ambasciate ucraine in Africa, mentre in concomitanza con la visita di Xi Jinping a Mosca, Putin ha ospitato nella sua capitale anche la “Conferenza parlamentare internazionale Russia – Africa per un mondo multipolare” in preparazione del vertice economico previsto a luglio a San Pietroburgo. Proprio in questa sede, il leader russo ha accusato i Paesi ricchi di sfruttare l’accordo sul grano ucraino per togliere risorse all’Africa. 

E, numeri alla mano, non ha tutti i torti. Stando ai dati del Joint Coordination Centre dell’Onu per la Black Sea Grain Initiative, su oltre 25,5 milioni di tonnellate di cereali esportati dall’Ucraina a partire dall’agosto 2022, solo l’11,6% è arrivato nei Paesi africani. Appena il 18,7% è andato a nazioni a reddito medio o basso e appena il 5,3% ha raggiunto i 46 Paesi meno sviluppati del mondo. Tra i primi cinque importatori globali che al 24 marzo avevano ricevuto almeno 1 milione di tonnellate di cereali ucraini partiti dal Mar Nero, figurano invece: Cina, Spagna, Turchia, Italia e Paesi Bassi. 

Il nostro Paese infatti si mangia una buona fetta di questa torta. Secondo l’Onu, al 24 marzo, in Italia sono arrivate 1,8 milioni di tonnellate di cereali ucraine (pari al 7% del totale), più della metà di quanto giunto nello stesso periodo in tutta l’Africa e cinque volte le importazioni dell’intera Europa orientale.

Sarà forse un caso ma, nella stessa settimana tra il 20 e il 24 marzo, sono scoppiate proteste contro il carovita ai quattro punti cardinali dell’Africa: in Tunisia, Kenya, Sudafrica e Nigeria. Per buona parte del mondo, la guerra in Ucraina è tutta qui. Usa ed Europa farebbero bene a tenerne conto.

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