Il Giappone approfitta del lavoro illegale dei rifugiati per costruire le sue strade
Non hanno il permesso di lavorare e quindi si rivolgono al mercato nero finendo col partecipare alla costruzione di opere pubbliche
Fino al dicembre del 2015, Tokyo ha ricevuto 13.831 domande di asilo. Tra queste ci sono le richieste di diversi curdi rifugiatisi in Giappone dalla Turchia, specialmente dalla zona di Gaziantep nel sud del paese, fuggiti dalla violenza degli scontri tra le forze armate turche e i miliziani del partito dei lavoratori curdo (Pkk), e arrivati con visti turistici.
Ma il conservatore e tradizionalista Giappone non ha una grande inclinazione all’accoglienza. Geloso della sua uniformità culturale, non vede di buon occhio l’afflusso di immigrati – che siano migranti economici o richiedenti asilo – e oppone barriere quasi insormontabili.
Secondo Masaniko Shibayama, deputato e consigliere del primo ministro Shinzo Abe, il Giappone è “allergico” alla parola immigrazione: “La gente si preoccupa della pubblica sicurezza. Temono che i lavoratori stranieri portino via il lavoro ai giapponesi”.
Abe, d’altra parte, ha dichiarato che prima di considerare l’immigrazione come soluzione ai problemi demografici del paese, la cui popolazione sta calando, c’è da attingere alle donne e alle anziani.
Eppure, il declino numerico della forza lavoro giapponese rappresenta attualmente un grosso inconveniente per l’economia nipponica, soprattutto dato che alcune industrie fanno più fatica di altre ad attrarre lavoratori autoctoni.
Ecco allora che a sostituire gli operai edili giapponesi ci pensa il mercato nero del lavoro che coinvolge soprattutto proprio quegli immigrati e richiedenti asilo sgraditi che non hanno permessi di lavoro, ma che devono pur sempre guadagnarsi da vivere.
Uno di loro è Mazlum Balibay, 24 anni, che vive in Giappone ormai da più di otto anni dopo aver lasciato la Turchia per via delle persecuzioni subite da parte delle forze di sicurezza di Ankara che, ha raccontato l’uomo, hanno anche torturato il padre, accusato di avere legami con il Pkk, davanti ai suoi occhi.
Balibay ha già presentato richiesta di asilo quattro volte ed è in libertà provvisoria mentre le autorità esaminano la sua ultima domanda. Nel frattempo, appunto, gli sarebbe proibito lavorare e rischia in qualunque momento di essere riportato in detenzione.
(Qui sotto un permesso di libertà provvisoria rilasciato dalle autorità giapponesi. Credit: Thomas Peter; l’articolo prosegue dopo l’immagine)
Ma come egli stesso racconta, il Giappone ha bisogno di lavoratori irregolari come lui che si occupino di lavori nel settore delle costruzioni, tanto private quanto pubbliche, e quindi anche alla realizzazione di infrastrutture.
Singolare questa contraddizione in termini di un paese che nega i permessi ai lavoratori stranieri eppure attinge alla forza lavoro immigrata per i suoi lavori pubblici. Balibay ha conservato le buste paga di una società che aveva ottenuto vari appalti pubblici e per la quale ha lavorato alla costruzione di una strada e di un sistema fognario, nonché a lavori di demolizione.
Le richieste di asilo di tutta la famiglia di Balibay sono state rigettate, ma continuano a presentarle nuovamente perché secondo la legge i richiedenti asilo non possono essere deportati se hanno in sospeso una domanda di asilo.
Gli attivisti sostengono che il Giappone non ha mai concesso lo status di rifugiato ad alcun richiedente turco di etnia curda. Intanto, Balibay e altri suoi connazionali, inclusi i fratelli, continuano a lavorare in nero alle opere pubbliche nipponiche.